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«Certo» disse Rachel. «Sabato, domenica, lunedì, martedì, mercoledì, giovedì, venerdì, sabato…»

«Sabato l’hai già detto.»

«Già. Ma quanti giorni fa?»

«Non sai contare da lunedì a giovedì?»

Rachel aggrottò la fronte, mosse le labbra. Riprovò, stavolta contando sulle dita. «Quattro giorni?»

«Benissimo» disse Sol. «Mi sai dire quanto fa dieci meno quattro, piccolina?»

«Cosa vuol dire meno?»

Sol si costrinse a guardare di nuovo le carte. «Niente» rispose. «Lo imparerai a scuola.»

«Quando domani andiamo a casa?»

«Sì.»

Un mattino, quando Rachel uscì con Judy a giocare con gli altri bambini (ormai era troppo piccola per andare ancora a scuola) Sarai disse: «Sol, dobbiamo portarla su Hyperion».

Sol la fissò. «Eh?»

«Mi hai capito. Non possiamo aspettare che sia troppo piccola per camminare… per parlare. E poi, noi due non diventiamo più giovani.» Sarai rise a denti stretti. «Curioso, vero? Ma è così. Il trattamento Poulsen perderà efficacia, fra un paio d’anni.»

«Sarai, non ti ricordi? Tutti i medici dicono che Rachel non sopravviverebbe alla crio-fuga. Nessuno affronta un viaggio a velocità superiore a quella della luce, se non è in stato di crio-fuga. L’effetto Hawking può far impazzire… o peggio.»

«Non importa» disse Sarai. «Rachel deve tornare su Hyperion.»

«Ma che diavolo dici?» protestò Sol, arrabbiandosi.

Sarai gli strinse la mano. «Credi di essere l’unico a sognare?»

«Sognare?» riuscì a ripetere Sol.

Sarai sospirò e si sedette al tavolo bianco della cucina. La luce del mattino colpiva come un faro giallastro le piante sul davanzale. «Il luogo buio» disse Sarai. «Le due luci rosse in alto. La voce. Che ci dice… ci dice di portare… di andare su Hyperion. A fare… a fare un’offerta.»

Sol si leccò l’orlo del labbro superiore, ma era asciutto. Sentiva il cuore battergli all’impazzata. «Quale nome… quale nome chiama?»

Sarai lo guardò curiosamente. «I nostri. Se non ci fossi stato tu… con me, nel sogno… non l’avrei mai sopportato, per tutti questi anni.»

Sol crollò sulla sedia. Fissò, come se non li avesse mai visti, la mano e il braccio sul piano del tavolo. Le nocche cominciavano a gonfiarsi per l’artrite; il braccio mostrava le vene in rilievo e le macchie epatiche. La mano era la sua, ovviamente. Sol sentì se stesso dire: «Non me ne hai mai parlato. Non hai mai detto una parola…».

Ora la risata di Sarai fu meno amara. «E come potevo? Ogni volta ci svegliavamo nel buio. E tu eri madido. Ho capito dall’inizio che non si trattava di un semplice sogno. Dobbiamo andare, Padre. Andare su Hyperion.»

Sol mosse la mano. Ancora non gli sembrava che facesse parte del suo corpo. «Perché? Per l’amor di Dio, Sarai, perché? Non possiamo… offrire Rachel!»

«No, certo, Padre. Non ci hai pensato? Dobbiamo andare su Hyperion… dovunque il sogno ci indichi… e offrire noi stessi in cambio.»

«Offrire noi stessi» ripeté Sol. Si domandò se non gli venisse un infarto: il petto gli doleva da mozzargli il fiato. Per un minuto intero rimase in silenzio, convinto che, se avesse provato a spiccicar parola, avrebbe emesso solo un singhiozzo. Dopo un altro minuto, disse: «Da quanto tempo… ci pensi, Madre?».

«Da quanto tempo so cosa dobbiamo fare, intendi? Un anno. Un po’ di più. Dal suo quinto compleanno.»

«Un anno! Perché non mi hai detto niente?»

«Aspettavo. Che tu capissi. Che sapessi.»

Sol scosse la testa. La stanza gli sembrò lontana, pazzamente inclinata. «No. Cioè… non sembra… devo riflettere, Madre.» Sol guardò la mano estranea accarezzare quella ben nota di Sarai.

Lei annuì.

Sol trascorse tre giorni e tre notti fra le aride montagne, mangiando solo il pane dalla crosta spessa che si era portato e bevendo dal thermos condensatore.

Diecimila volte, negli ultimi venti anni, aveva desiderato d’avere lui la malattia di Racheclass="underline" se uno doveva soffrire, che fosse il padre, non la figlia. Qualsiasi genitore avrebbe pensato allo stesso modo… pensava davvero a questo modo… ogni volta che il figlio si feriva o era tormentato dalla febbre. Certo non era così semplice. Nel caldo del terzo pomeriggio, mentre giaceva assopito all’ombra di una sottile lastra di roccia, Sol imparò che non era affatto così semplice.

Che fosse questa, la risposta di Abramo a Dio? Offrire se stesso al posto d’Isacco?

Non poteva essere la risposta di Abramo. E non può essere la tua. Perché?

Quasi in risposta, Sol ebbe la visione di adulti nudi che sfilavano fra uomini armati verso i forni, di madri che nascondevano sotto mucchi d’indumenti i propri figli. Vide uomini e donne, la cui carne pendeva in brandelli bruciati, portare bambini sbigottiti via dalle ceneri di quella che un tempo era una città. Sol capì che queste immagini non erano un sogno: erano la sostanza stessa del Primo e del Secondo Olocausto. E capì, prima che la voce gli parlasse nella mente, qual era la risposta. Quale doveva essere.

I genitori hanno offerto se stessi. Questo sacrificio è già stato accettato. Siamo al di là di questo punto.

E allora? Allora?

Gli rispose il silenzio. Sol rimase fermo sotto il bagliore del sole, quasi cadde. In alto, o nella visione, un uccello nero roteò. Sol agitò il pugno contro il cielo color bronzo.

Ti servi dei nazisti come strumento. Pazzi. Mostri. Sei un maledetto mostro tu stesso.

No.

La terra s’inclinò e Sol cadde sul fianco, contro i sassi acuminati. Non gli sembrò molto diverso dall’appoggiarsi a una parete scabra. Una pietra grossa come il suo pugno gli bruciò la guancia.

Per Abramo, pensò Sol, la giusta risposta era l’ubbidienza. Dal punto di vista etico, Abramo stesso era un bambino. Lo erano tutti gli uomini, a quel tempo. Per i figli di Abramo, la giusta risposta era diventare adulti e offrire se stessi in cambio. Qual è la giusta risposta, per noi?

Non ci fu risposta. Il terreno e il cielo smisero di roteare. Dopo un po’, Sol si alzò, malfermo sulle gambe; si pulì la guancia dal sangue e dalla polvere, scese verso la città nella vallata sottostante.

«No» disse Sol a Sarai. «Non andremo su Hyperion. Non è la soluzione giusta.»

«Allora non faremo niente.» Le labbra di Sarai si erano sbiancate, ma la voce era sotto controllo.

«No. Non voglio che facciamo la cosa sbagliata.»

Sarai sospirò. Indicò la finestra, da cui si vedeva in cortile la figlia di quattro anni giocare con il cavalluccio. «Pensi che lei abbia tempo d’aspettare che facciamo la cosa sbagliata… o una cosa qualsiasi… indefinitamente?»

«Siediti, Madre.»

Sarai rimase in piedi. Sul davanti del vestito marrone chiaro di cotone c’era il debole brillio di alcuni granelli di zucchero. Sol ricordò la giovane donna che s’alzava, nuda, dalla scia fosforescente dell’isola mobile, su Patto-Maui.

«Dobbiamo fare qualcosa» disse lei.

«Abbiamo consultato più di cento medici e scienziati. L’hanno guardata, toccata, sondata, torturata, in venti centri di ricerca. Io sono andato alla Chiesa Shrike su ogni mondo della Rete e non mi hanno neppure ricevuto. A Reichs, Melio e gli altri esperti dicono che, nella sua dottrina, il culto Shrike non contempla niente di simile al morbo di Merlino e che gli indigeni di Hyperion non hanno leggende che riguardano questa malattia o il modo per curarla. Durante i tre anni di permanenza su Hyperion, la squadra di ricerca non ha scoperto niente. Adesso le ricerche in situ sono vietate. L’accesso alle Tombe del Tempo è permesso solo ai cosiddetti pellegrini. È quasi impossibile perfino ottenere un visto di viaggio per Hyperion. E se portiamo Rachel, il viaggio potrebbe ucciderla.»