Sol s’interruppe per riprendere fiato e toccò di nuovo il braccio di Sarai. «Scusa se te lo ripeto, Madre. Ma qualcosa abbiamo fatto.»
«Non abbastanza» disse Sarai. «E se ci andassimo come pellegrini?»
Sol incrociò le braccia, frustrato. «La Chiesa Shrike sceglie fra migliaia di volontari le sue vittime sacrificali. La Rete è piena di gente stupida, depressa. Pochi pellegrini tornano.»
«E questo non dimostra qualcosa?» mormorò Sarai con un tono pressante. «Qualcuno o qualcosa cattura i pellegrini.»
«Banditi» disse Sol.
Sarai scosse la tesa. «Il golem.»
«Intendi lo Shrike.»
«Quello è il golem» insistette Sarai. «Lo stesso che vediamo nel sogno.»
Sol era turbato. «Non vedo nessun golem, nel sogno. Quale golem?»
«Gli occhi rossi che osservano. Lo stesso golem che Rachel ha sentito quella notte dentro la Sfinge.»
«Come sai che ha sentito qualcosa?»
«È nel sogno. Prima che entriamo nel luogo dove il golem aspetta.»
«Non abbiamo sognato lo stesso sogno. Madre, Madre… perché non me ne hai parlato prima?»
«Credevo di perdere la ragione» mormorò Sarai.
Sol pensò alle sue conversazioni segrete con Dio e circondò le spalle della moglie.
«Oh, Sol» mormorò Sarai, stringendosi a lui. «È troppo doloroso stare a guardare. E questo posto è davvero solitario.»
Sol la tenne stretta. Cinque o sei volte avevano provato ad andare a casa (la loro casa sarebbe stata per sempre il Mondo di Barnard) a fare visita a familiari e amici, ma ogni volta la visita era stata rovinata da un’invasione di robocron e di turisti. Non era colpa di nessuno. Le notizie viaggiavano quasi istantaneamente attraverso la megasfera dati di centosessanta mondi della Rete. Per soddisfare la curiosità, bastava infilare una carta universale nel diskey di un terminex e varcare il teleporter. Avevano provato ad arrivare senza annunciarsi e a viaggiare in incognito, ma non erano bravi a giocare alle spie e i loro sforzi erano penosi. Entro ventiquattr’ore standard dal rientro nella Rete, si ritrovavano assediati. Istituti di ricerca e grandi centri medici fornivano facilmente lo schermo di sicurezza per visite del genere, ma gli amici e i familiari soffrivano. Rachel faceva NOTIZIA.
«Potremmo invitare di nuovo Tetha e Richard…» cominciò Sarai.
«Ho un’idea migliore» disse Sol. «Vai da sola, Madre. Vuoi rivedere tua sorella, ma vuoi anche vedere, sentire, annusare casa… guardare un tramonto in cui non ci siano iguane… camminare nei campi. Vai.»
«Da sola? Non riuscirei a stare lontano da Rachel…»
«Sciocchezze. Due volte in vent’anni… quasi quaranta, se contiamo i giorni belli precedenti… comunque, due volte in vent’anni non significa trascurare i figli. È stupefacente che in questa famiglia ci si sopporti ancora: siamo rimasti stipati insieme per un mucchio di tempo.»
Sarai, assorta, fissava il piano del tavolo. «Ma la gente della stampa non mi troverebbe?»
«Non credo» rispose Sol. «A quanto pare, marcano da vicino solo Rachel. Se ti danno la caccia, torna a casa. Ma sono sicuro che puoi passare una settimana a fare visita a chi vuoi, prima che i cronisti ti scoprano.»
«Una settimana» ansimò Sarai. «Non riuscirei…»
«Sì, invece. Anzi, devi farlo. Così avrò alcuni giorni da dedicare a Rachel; quando tornerai, rinfrescata, mi metterò egoisticamente al lavoro sul nuovo libro.»
«Quello su Kierkegaard?»
«No. Un altro con il quale mi sono baloccato e che intitolerò Il problema Abramo.»
«Che titolo maldestro!»
«Come il problema stesso» replicò Sol. «Ora vai a fare la valigia. Domani voliamo a Nuova Gerusalemme, così prendi il teleporter prima che inizi il sabato.»
«Ci penserò» disse lei, poco convinta.
«Fai la valigia» insistette Sol, abbracciandola di nuovo, poi la fece girare in modo che desse le spalle alla finestra e avesse di fronte il corridoio e la porta della camera da letto. «Vai. Quando tornerai da casa, avrò escogitato qualcosa.»
Sarai esitò. «Me lo prometti?»
Lui la guardò negli occhi. «Prometto che lo farò prima che il tempo distrugga ogni cosa. Ti giuro, come padre di Rachel, che troverò un modo.»
Sarai annuì, più calma di quanto lui non la vedesse da mesi. «Vado a fare la valigia» disse.
Il giorno dopo, quando con la figlia tornò da Nuova Gerusalemme, Sol uscì a bagnare il prato stento, mentre Rachel giocava tranquilla in casa. Quando rientrò, il roseo bagliore del tramonto dava alle pareti un senso di tepore marino e di quiete; Rachel non era nella sua stanza e neppure nei suoi soliti posti. «Rachel?»
Non ottenne risposta. Controllò di nuovo il cortile posteriore e la via deserta.
«Rachel?» Sol si precipitò al telefono per chiamare i vicini, ma a un tratto sentì un lievissimo rumore provenire dal grande armadio che Sarai usava come ripostiglio. Piano piano Sol aprì l’anta.
Rachel era seduta sotto gli abiti appesi; fra le sue gambette c’era, aperto, l’antico bauletto di pino. Per terra erano sparse fotografie e olochip di Rachel studentessa delle superiori, di Rachel nel giorno della partenza per il college, di Rachel di fronte alla montagna scolpita su Hyperion. Il comlog di studio di Rachel mormorava in grembo alla Rachel di quattro anni. Il cuore di Sol sobbalzò al suono ben noto della voce fiduciosa della giovane donna.
«Papà» disse la bambina seduta per terra, con voce che era l’eco un po’ spaventata di quella del comlog. «Non mi hai mai detto che avevo una sorella.»
«Non hai sorelle, piccolina.»
Rachel corrugò la fronte. «Allora questa è mamma quando era… non era così grande? Uh, non è possibile. Anche lei si chiama Rachel, dice qui. Com’è possibile…»
«Niente di strano, ora ti spiego…» Sol si rese conto che in soggiorno il telefono squillava. «Aspetta solo un minuto, tesoro. Torno subito.»
Sopra la piazzuola di trasmissione si formò l’ologramma di un uomo che Sol non aveva mai visto. Sol non attivò il proprio trasmettitore, ansioso di liberarsi dello sconosciuto. «Sì?» disse, brusco.
«Signor Weintraub? Il Weintraub che stava sul Mondo di Barnard e ora sta nel villaggio di Dan su Hebron?»
Sol mosse la mano per togliere la comunicazione, poi esitò. Il suo codice d’accesso non figurava in elenco. Di tanto in tanto un venditore chiamava da Nuova Gerusalemme, ma le chiamate extraplanetarie erano rarissime. E, capì, con un’improvvisa stilettata gelida allo stomaco, era sabato e il sole era calato da un pezzo: solo le chiamate d’emergenza erano permesse.
«Sono io» rispose.
«Signor Weintraub» disse l’uomo, fissando ciecamente al di là di Sol. «È accaduto un incidente terribile.»
Quando Rachel si svegliò, suo padre era seduto accanto a lei sul letto. Sembrava stanco. Aveva gli occhi rossi e le guance grigie per i peli sopra la linea della barbetta ben curata.
«Buon giorno, papà.»
«Buon giorno, tesoro.»
Rachel si guardò intorno e batté le palpebre. C’erano alcune sue bambole e alcuni suoi giocattoli, ma la stanza non era la sua. La luce era diversa. L’aria sapeva di diverso. Suo papà sembrava diverso. «Papà, dove siamo, papà?»
«Abbiamo fatto un viaggio, piccolina.»
«Dove?»
«Non conta, al momento. Salta fuori, tesoro. Devi fare il bagno e poi dobbiamo vestirci.»
Ai piedi del letto c’era un abito nero che lei non aveva mai visto. Rachel guardò il vestito, poi il padre. «Papà, cosa succede? Dov’è mamma?»