Al diavolo la data! Lo chiamerò Giorno 1 del mio esilio.
Giorno estenuante. (Strano, sentirsi stanchi dopo mesi di sonno; ma sembra che sia una reazione comune, al risveglio dalla crio-fuga. Le mie cellule sentono la fatica dei mesi di viaggio anche se io non me ne ricordo. E non ricordo neppure d’avere provato stanchezza per i viaggi quand’ero più giovane.)
Rimpiango di non avere conosciuto meglio il giovane Hoyt. Sembra una persona per bene, tutto catechismo e fervore. Non è colpa di un giovanotto come lui, se la Chiesa si avvicina alla fine. Solo, quel suo tipo d’ingenuità non può fare niente per arrestare la lenta caduta nell’oblio cui la Chiesa sembra destinata.
Be’, neppure il mio contributo ha fatto niente.
Splendida, la vista del mio nuovo mondo, mentre la navetta ci porta giù. Ho scorto due dei tre continenti: Equus e Aquila. Il terzo, Ursa, non era visibile.
Atterraggio a Keats. Ore di fatica per le formalità doganali e per l’arrivo via terra alla città. Immagini confuse: la catena montuosa a nord con la sua mutevole foschia azzurrina; alture coperte di foreste d’alberi gialli e arancione; cielo livido sullo sfondo verdazzurro; sole troppo piccolo, ma più luminoso di quello di Pacem. I colori sembrano più vividi da lontano: si dissolvono e si disperdono, quando ci si avvicina, come sulle tele dei divisionisti. La grande statua di re Billy il Triste, della quale ho sentito parlare moltissimo, è stata stranamente una delusione. Vista dalla strada appariva rozza e grezza; un abbozzo frettoloso scalpellato nella montagna scura, anziché la figura regale che m’aspettavo. Sovrasta, pensierosa, la sgangherata città di mezzo milione d’anime in un modo che sarebbe certo piaciuto al nevrotico re poeta.
La città stessa sembra divisa in due: l’ampio labirinto di bassifondi e di bar che i locali chiamano Jacktown, e la Keats vera e propria, chiamata Città Vecchia anche se ha solo quattro secoli, tutta pietra levigata e studiata sterilità. Presto ne farò il giro.
Ho previsto di trascorrere a Keats un mese, ma sono già impaziente di andare avanti. Ah, Monsignor Edouard, se tu potessi vedermi adesso! Castigato, ma tuttora impenitente. Più solo che mai, ma curiosamente soddisfatto dell’esilio. Se il castigo dei passati eccessi per troppo zelo dev’essere l’esilio nel settimo cerchio di desolazione, allora Hyperion è stato un’ottima scelta. Potrei dimenticare la missione scelta di mia iniziativa, la ricerca dei Bikura (sono reali? Stasera credo di no) e accontentarmi di vivere per il resto dei miei anni in questa capitale di un mondo arretrato e dimenticato da Dio. Non per questo il mio esilio sarebbe meno completo.
Ah, Edouard! Ragazzi insieme, compagni di scuola (anche se non ero brillante e ortodosso quanto te), e ora vecchi insieme. Ma adesso tu sei di quattro anni più saggio di me, e io sono sempre l’incorreggibile birbante che hai conosciuto. Mi auguro che tu stia bene e che preghi per me.
Stanco. Ora dormo. Domani faccio il giro turistico di Keats e un buon pasto, poi mi procuro un trasporto fino ad Aquila e punto a sud.
Giorno 5
C’è una cattedrale, a Keats. Per meglio dire, c’era. È stata abbandonata da almeno due secoli standard. Giace in rovina, con il transetto aperto al cielo verdazzurro, una delle torri occidentali ancora incompiuta e l’altra ridotta a uno scheletro di pietre crollate e a un’intelaiatura di sbarre di sostegno arrugginite.
L’ho scoperta per caso, mentre vagavo, smarrito, lungo la riva dell’Hoolie nella zona scarsamente popolata dove la Citta Vecchia si riduce a Jacktown, fra una confusione di alti magazzini che impediscono anche solo un’occhiata alle torri in rovina, finché non si svolta in uno stretto vicolo cieco e ci si trova davanti al guscio dell’edificio. Mezza sala capitolare è crollata nel fiume; la facciata è butterata dagli avanzi delle sculture tristi e apocalittiche del periodo espansionistico post-Egira.
Vagai nel graticcio di ombre e di pietre cadute, fin dentro la navata. L’episcopato di Pacem non aveva parlato di una presenza cattolica su Hyperion, tanto meno di una cattedrale. È quasi inconcepibile che la colonia fondata quattro secoli fa contasse un gruppo di fedeli abbastanza numeroso da richiedere la presenza d’un vescovo, per non parlare di una cattedrale. Eppure, eccola lì.
Frugai fra le ombre della sacrestia. Polvere e cemento sgretolato aleggiavano come incenso nell’aria e mettevano in risalto due raggi di sole che penetravano dalle finestrelle poste molto in alto. Avanzai in una chiazza più ampia di luce e mi accostai all’altare disadorno, se non per le crepe e le scheggiature provocate dal crollo delle parti in muratura. La grande croce un tempo appesa alla parete orientale dietro l’altare era caduta e adesso giaceva in schegge di ceramica fra i cumuli di pietre. Senza pensarci, andai dietro l’altare, alzai le braccia e iniziai la celebrazione dell’eucaristia. Con questo non intedevo parodiare nulla, né compiere un gesto drammatico. Il mio comportamento era privo di simbolismi, di seconde intenzioni. Era soltanto la reazione automatica di un prete che, per oltre quarantasei anni, aveva detto Messa quasi ogni giorno e che ora affrontava la prospettiva di non partecipare mai più a questo rito confortante.
Con stupore mi accorsi di non essere solo. C’era una vecchia, inginocchiata nella quarta fila di banchi. Il nero del vestito e dello scialle si fondevano perfettamente con le ombre: si vedeva solo il pallido ovale del viso rugoso e vecchio che sembrava galleggiare privo di corpo nelle tenebre. Sorpreso, smisi di recitare la litania della consacrazione. La donna mi guardava; ma qualcosa nei suoi occhi, anche da lontano, mi convinse subito che era cieca. Per un attimo non riuscii a parlare e rimasi lì, ammutolito, socchiudendo gli occhi nella luce polverosa che bagnava l’altare; cercai di spiegarmi quell’immagine spettrale e di trovare nello stesso tempo una spiegazione per la mia stessa presenza e il mio comportamento.
Quando ritrovai la voce e la chiamai (le parole echeggiarono nella vasta navata) mi resi conto che la donna si era mossa. Sentivo un fruscio di piedi sul pavimento di pietra. Ci fu uno strofinio e poi un breve lampo le illuminò il viso, all’estrema destra dell’altare. Mi schermai gli occhi per proteggerli dai raggi di sole e cominciai a farmi strada fra i detriti, nel punto in cui un tempo c’era la balaustra. Chiamai di nuovo la donna, la rassicurai, le dissi di non avere paura, anche se ero io stesso a sentire lungo la schiena brividi gelidi. Mi mossi in fretta, ma quando arrivai all’angolo riparato della navata la donna era scomparsa. Una porticina portava alla sala capitolare diroccata e alla riva del fiume. La donna non si vedeva. Tornai nell’interno buio. Avrei attribuito volentieri la sua comparsa all’immaginazione, a un sogno a occhi aperti dopo tanti mesi privi di sogni in crio-fuga, se non fosse stato per una singola, tangibile prova della sua presenza: nelle gelide tenebre ardeva una solitaria candela votiva, rossa, la cui minuscola fiammella tremolava agli invisibili spifferi.
Sono stufo di questa città. Sono stufo delle presunzioni pagane e delle false storie. Hyperion è il mondo d’un poeta, privo di poesia. La stessa Keats è un miscuglio di falso classicismo di cattivo gusto e di sciocca energia dedicata allo sviluppo della città. Ci sono tre congregazioni di gnostici Zen e quattro moschee di Gran Musulmani, ma le vere case di culto sono gli innumerevoli bar e bordelli, gli enormi mercati che trattano le spedizioni di fibroplastica prodotta nel sud e i templi del culto Shrike, dove anime perdute nascondono la propria disperazione suicida dietro un paravento di vuoto misticismo. L’intero pianeta puzza di misticismo senza rivelazione.
Vada al diavolo.
Domani punto a sud. Ci sono skimmer e altri velivoli, su questo mondo assurdo, ma per la gente comune il modo di viaggiare fra queste maledette isole continentali sembra limitato all’uso di barche (e richiede un’eternità, a quanto dicono), o di dirigibili-passeggeri che partono da Keats solo una volta a settimana.