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— Se hanno distrutto la funivia, siamo fritti — brontolò il Console. Il pensiero, trattenuto fino a quel momento, gli strinse lo stomaco.

— Vedo i primi cinque — disse il colonnello Kassad, usando il binocolo elettronico. — Sembrano intatti.

— Segni di cabine?

— No… un momento, sì. Ce n’è una al cancello della piattaforma della stazione.

— Nessuna in movimento? — domandò Martin Sileno, che chiaramente capiva quanto sarebbe stata disperata la loro situazione se la funivia non era intatta.

— No.

Il Console scosse la testa. Anche con le peggiori condizioni atmosferiche e in assenza di passeggeri, le cabine erano tenute sempre in movimento per mantenere flessibili e privi di ghiaccio i grossi cavi.

I sei avevano portato i bagagli sul ponte ancor prima che il carro terzalorasse le vele e spingesse fuori la passerella. Ora ognuno indossava un pesante cappotto per difendersi dagli elementi: Kassad aveva un termomantello mimetico della FORCE; Brawne Lamia portava un lungo indumento, chiamato termotrench per ragioni ormai dimenticate; Martin Sileno era avvolto in una folta pelliccia che s’increspava ora in nero, ora in grigio, secondo i capricci del vento; padre Hoyt indossava un lungo cappotto nero che lo rendeva ancora più simile a uno spaventapasseri; Sol Weintraub era infagottato con la figlia in uno spesso piumone; il Console portava il leggero ma caldo cappotto regalatogli alcuni decenni prima dalla moglie.

— E le cose del capitano Masteen? — domandò Sol, mentre erano fermi all’estremità della passerella. Kassad era andato avanti a fare il sopralluogo del villaggio.

— Le ho prese io — rispose Lamia. — Le porteremo con noi.

— Non mi sembra giusto — disse padre Hoyt. — Proseguire così, intendo. Dovrebbe esserci una sorta di… di servizio funebre, ecco. L’attestazione della morte d’un uomo.

— Della presunta morte — gli ricordò Lamia, sollevando con facilità e con una sola mano quaranta chili di zaino.

Hoyt la fissò, incredulo. — Pensa davvero che Masteen sia ancora vivo?

— No — rispose Lamia. Fiocchi di neve si posarono sui suoi capelli neri.

In fondo al pontile, Kassad agitò il braccio e loro scaricarono dal silenzioso carro a vela i bagagli. Nessuno si guardò indietro.

— Deserto? — gridò Lamia, mentre si avvicinavano al colonnello. Il mantello di Kassad, come un camaleonte, passava continuamente dal grigio al nero.

— Deserto.

— Cadaveri?

— No. — Kassad si rivolse a Sol e al Console. — Avete preso le cose in cambusa?

Tutt’e due annuirono.

— Quali cose? — chiese Sileno.

— Cibo per una settimana — rispose Kassad girandosi a guardare la stazione della funivia più in alto sulla collina. Per la prima volta il Console notò che l’uomo teneva nell’incavo del braccio un lungo fucile d’assalto, appena visibile sotto il mantello. — Non sappiamo se da qui in poi c’è la possibilità di rifornirsi.

“Saremo ancora vivi, da qui a una settimana?” si chiese il Console. Ma non disse niente.

In due viaggi trasportarono alla stazione i bagagli. Il vento sibilava tra le finestre senza vetri e le cupole cadenti degli edifici bui. Nel secondo viaggio trasportarono il cubo di Moebius: il Console lo reggeva da una parte; Hoyt, ansimando e sbuffando, dall’altra.

— Perché portiamo con noi l’erg? — chiese Hoyt con il fiato grosso quando arrivarono alla base della scala di metallo che portava alla stazione. Ruggine simile a licheni arancione striava e macchiava la piattaforma.

— Non so — rispose il Console, anche lui a corto di fiato. Dalla piattaforma del terminal si aveva una buona visuale del mare d’Erba. Il carro a vela era rimasto dove si era fermato, con le vele terzarolate: un oggetto buio e privo di vita. Turbini di neve si muovevano sulla prateria e davano l’illusione di creste d’onda sugli innumerevoli steli d’erba alta.

— Portate tutto a bordo — disse Kassad. — Vado a vedere se dalla cabina dell’operatore, lassù, si può rimettere in funzione il meccanismo di movimento.

— Non è automatico? — domandò Martin Sileno, con la testa quasi persa nella folta pelliccia. — Come il carro a vela?

— Non credo — rispose Kassad. — Andate dentro, mentre io vedo se riesco a farlo funzionare.

— E se parte senza di lei? — disse Lamia, mentre il colonnello si allontanava.

— Non accadrà.

L’interno della cabina era freddo e spoglio, a parte le panche metalliche dello scompartimento anteriore e una decina di rozze cuccette nella zona posteriore, meno ampia. La cabina era molto grande, almeno otto metri per cinque. Una sottile paratia di metallo, con un’apertura senza battente, separava lo scompartimento posteriore da quello anteriore. Un piccolo gabinetto grosso quanto un armadio occupava un angolo di quello posteriore. Finestre che inziavano all’altezza della vita e arrivavano al soffitto erano disposte lungo quello anteriore.

I pellegrini ammucchiarono al centro i bagagli e si misero a battere i piedi e a muovere le braccia per scaldarsi. Martin Sileno si distese su una panca: un mucchio di pelliccia dal quale spuntavano solo i piedi e la testa. Disse: — Non ricordo più come cazzo s’accende il riscaldamento, in questo trabiccolo.

Il Console lanciò un’occhiata ai pannelli con le spie spente. — Funziona a elettricità. Si accenderà quando il colonnello farà muovere la cabina.

— Se ci riesce — replicò Sileno.

Sol Weintraub, che aveva cambiato il pannolino a Rachel, la avvolse di nuovo nella tuta termica per neonati e la cullò fra le braccia. — Qui non ci sono mai stato, ovviamente — disse. — Voi due sì, invece?

— Già — rispose il poeta.

— No — disse il Console. — Ma ho visto delle foto della funivia.

— Kassad ha detto di essere tornato a Keats con questo mezzo una volta — intervenne Lamia dall’altro scompartimento.

— Credo… — iniziò Sol Weintraub, ma fu interrotto da un rumoroso sferragliare di meccanismi e da uno scarto improvviso della lunga cabina che si mise a dondolare tanto da dare la nausea e poi scivolò in avanti sotto l’improvvisa trazione del cavo. Tutti si precipitarono alla finestra sul lato rivolto alla piattaforma.

Kassad, che aveva portato a bordo i suoi bagagli prima di salire la lunga scaletta fino alla postazione dell’operatore, comparve sulla soglia del gabbiotto, scese rapidamente i gradini e corse verso la cabina che stava già passando al di là dell’area di caricamento della piattaforma.

— Non ce la farà — mormorò padre Hoyt.

Negli ultimi dieci metri Kassad accelerò, muovendo le lunghe gambe incredibilmente in fretta, come un cartone animato.

La cabina scivolò oltre la piattaforma di carico e si staccò dalla stazione, lasciando uno spazio vuoto di otto metri sopra le rocce. Il pavimento della piattaforma era striato di ghiaccio. Kassad corse a tutta velocità mentre la cabina s’allontanava.

— Forza! — gridò Brawne Lamia. Gli altri si unirono al grido.

Il Console alzò gli occhi verso la crosta di ghiaccio che si rompeva e cadeva dal cavo mentre la cabina cominciava a salire. Guardò indietro. Il varco era troppo ampio. Kassad non ce l’avrebbe mai fatta.