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Fedmahn Kassad correva a una velocità incredibile, quando raggiunse l’orlo della piattaforma. Per la seconda volta ricordò al Console il ghepardo della Vecchia Terra visto in uno zoo di Lusus. Il Console quasi si aspettava di vedere i piedi del colonnello scivolare sopra una lastra di ghiaccio, le lunghe gambe volare orizzontalmente, l’uomo cadere senza un grido sulle rocce sottostanti coperte di neve. Invece Kassad sembrò volare per un istante senza fine, con le braccia allargate e il mantello svolazzante. Sparì dietro la cabina.

Si sentì un tonfo sordo, seguito da un lungo minuto in cui nessuno si mosse né aprì bocca. Ora si trovavano solo a quaranta metri d’altezza e salivano verso il primo pilone. Un istante dopo, Kassad comparve all’angolo della cabina: si arrampicava sfruttando una serie di appigli ghiacciati infissi nel metallo. Brawne Lamia spalancò la porta. Dieci mani lo aiutarono a entrare.

— Grazie a Dio — disse padre Hoyt.

Il colonnello inspirò a fondo e sorrise con aria torva. — C’era un freno di sicurezza. Ho dovuto bloccare con un sacchetto di sabbia la leva. Non volevo riportare indietro la cabina per un secondo tentativo.

Martin Sileno indicò il pilone di sostegno che s’avvicinava rapidamente e il tetto di nubi appena più in là. Il cavo si tendeva in alto, nell’oblio. — Credo che ora, lo vogliamo o no, attraverseremo le montagne.

— Quanto occorre per compiere la traversata? — domandò Hoyt.

— Dodici ore. Un po’ meno, forse. A volte gli operatori fermano la cabina, se il vento diventa troppo forte o se c’è molto ghiaccio.

— In questo viaggio non ci saranno fermate — disse Kassad.

— A meno che il cavo non si spezzi — replicò il poeta. — O che si vada a sbattere contro una sporgenza rocciosa.

— Chiudi il becco — disse Lamia. — A chi interessa scaldare un po’ di cena?

— Guardate — disse il Console.

Si accostarono tutti alla finestra anteriore. La cabina si alzò d’un centinaio di metri sopra l’ultima curva marrone delle alture ai piedi delle montagne. Chilometri più in basso e più indietro, colsero l’ultima fuggevole vista della stazione, delle tormentate baracche di Riposo del Pellegrino e dell’immobile carro a vela.

Poi furono avvolti dalla neve e dalle fitte nubi.

La cabina della funivia non aveva vere e proprie attrezzature per cucinare, ma nella paratia anteriore c’erano un frigo e un forno a microonde. Lamia e Weintraub misero insieme un po’ di carne e di verdura che avevano preso nella cambusa del carro a vela e prepararono uno stufato passabile. Martin Sileno aveva portato con sé delle bottiglie di vino, prese sia dalla Benares sia dal carro: per accompagnare lo stufato scelse un borgogna d’Hyperion.

Avevano quasi terminato di cenare, quando il buio che premeva contro le finestre si diradò e poi svanì del tutto. Il Console si girò sulla panca a guardare l’improvvisa ricomparsa del sole, che riempì di un’irreale luce dorata la cabina.

Dal gruppetto si alzò un sospiro collettivo. Era sembrato che l’oscurità fosse già scesa da ore; ma adesso, mentre s’innalzavano al di sopra d’un mare di nubi dal quale si levava una catena di montagne, godevano la vista di un luminoso tramonto. Il cielo d’Hyperion si era incupito dal glauco splendore del giorno all’azzurro profondo della sera, mentre il sole color oro rosso accendeva le torri di nubi e le grandi vette di ghiaccio e di roccia. Il Console si guardò intorno. Gli altri pellegrini, grigi e piccoli nella fioca luce di mezzo minuto prima, risplendevano adesso dell’oro del tramonto.

Martin Sileno alzò il bicchiere. — Così è meglio, perdio!

Il Console alzò gli occhi verso la traiettoria del viaggio, il massiccio cavo che più avanti rimpiccioliva fino a sembrare filiforme e poi si perdeva nel nulla. Sulla vetta a parecchi chilometri di distanza, la luce dorata si rifletteva contro il successivo pilone di sostegno.

— Centonovantadue piloni — disse Sileno, con la stanca cantilena di una guida turistica. — Ogni pilone, in lega pesante e fibro-carbonio, è alto ottantatré metri.

— Siamo molto in alto — disse Brawne Lamia, a voce bassa.

— Il punto più alto dei novantasei chilometri del percorso di questa funivia si trova al di sopra di monte Dryden, il quinto picco della Briglia con i suoi 9146 metri — continuò, monotono, Martin Sileno.

Il colonnello Kassad si guardò in giro. — La cabina è pressurizzata. Ho sentito la conversione, poco fa.

— Guardate — disse Brawne Lamia. Per un lungo momento il sole era rimasto come sospeso sulla linea di nubi all’orizzonte. Ora si tuffò al di sotto, sembrò incendiare dal basso la distesa delle nuvole temporalesche e gettare una panoplia di colori lungo l’intero orlo occidentale del mondo. Cornici di neve e di ghiaccio trasparente brillavano ancora sopra le pareti occidentali delle vette che s’innalzavano un chilometro e più al di sopra della funivia in ascesa. Nella cupola sempre più scura del cielo spuntarono le prime stelle, quelle più luminose.

Il Console si rivolse a Brawne Lamia. — Perché non ci racconta adesso la sua storia, signora Lamia? Dormiremo più tardi, prima d’arrivare al Castello.

Lamia bevve le ultime gocce di vino. — Volete ascoltarla adesso?

Nella luce rosata tutti annuirono, tranne Martin Sileno che scrollò le spalle.

— E va bene — disse Brawne Lamia. Posò il bicchiere vuoto, tirò sulla panca i piedi in modo da appoggiare i gomiti alle ginocchia e iniziò a raccontare.

IL RACCONTO DELL’INVESTIGATRICE

Il lungo addio

Capii che sarebbe stato un caso particolare nel momento stesso in cui lui entrò nel mio ufficio. Era un uomo molto bello. Con questo non voglio dire che fosse effeminato o “carino” come un divo o un modello della TVE: era semplicemente… bello.

Arrivava appena alla mia altezza, e io sono nata e cresciuta su Lusus, in un campo gravitazionale di 1,3 g. Capii alla prima occhiata che il mio visitatore non era lusiano: il suo fisico compatto, ben proporzionato secondo gli standard della Rete, era atletico ma snello. Il viso rivelava energia e determinazione: fronte bassa, zigomi sporgenti, naso diritto, mascella solida, bocca grande che suggeriva un carattere sensuale e ostinato. Gli occhi, grandi, erano castani. Sembrava sulla trentina standard.

Sia ben chiaro, non notai tutti questi particolari nel momento in cui entrò. Il mio primo pensiero fu: “Sarà un cliente?” Il mio secondo: “Merda, è davvero un bell’uomo!”

«La signora Lamia?»

«Già.»

«La Brawne Lamia delle Investigazioni Inter-Rete?»

«Già.»

Si guardò intorno come se non riuscisse a crederci. Lo capivo molto bene. Il mio ufficio si trova al ventiduesimo piano d’un vecchio alveare industriale nel settore Vecchi Meublé di Ghisa Grezza, su Lusus. Ha tre grandi finestre che guardano sulla Fossa di Servizio 9, dove è sempre buio e pioviggina in continuazione grazie al forte gocciolio dei filtri dell’alveare superiore. Il panorama consiste soprattutto in banchine automatiche di carico abbandonate e travature arrugginite.

Non me ne frega niente, costa poco. E poi la maggior parte dei miei clienti telefona, non si presenta di persona.

«Posso sedermi?» domandò, evidentemente soddisfatto che un’agenzia investigativa seria operasse da bassifondi del genere.

«Certo» risposi, indicandogli una poltrona. «Signor… ah?»

«Johnny» rispose lui.

Non sembrava uno di quei tipi cui fa comodo tralasciare il cognome. Qualcosa, in lui, puzzava di denaro. Non per gli abiti (casual grigio e nero di tipo abbastanza comune, anche se di una stoffa migliore della media), ma perché dava la sensazione di essere un tipo di classe. Qualcosa nel modo di parlare. Sono brava, a indovinare dalla pronuncia la provenienza delle persone (è utile, nel mio mestiere); ma nel caso di quel visitatore non riuscivo a stabilire il mondo d’origine, né tantomeno la regione.