«Certo. Potrebbero riprovarci.»
«Infatti.»
«Come posso mettermi in contatto con lei, all’occorrenza?»
Johnny mi tese un chip d’accesso.
«Linea sicura?» domandai.
«Al massimo.»
«D’accordo. La chiamo se e quando ho delle novità.»
Uscimmo dal bar e ci avviammo al terminex. Si era appena allontanato, quando con tre rapidi passi lo raggiunsi e lo afferrai per il braccio. Era la prima volta che avevo un contatto fisico con lui. «Johnny. Come si chiama l’antico poeta della Vecchia Terra che hanno resuscitato…»
«Recuperato.»
«Come vuole. Quello su cui è costruita la sua personalità IA?»
L’avvenente cìbrido esitò. Notai che aveva le ciglia molto lunghe. «Non credo che abbia importanza» replicò.
«Nessuno sa cos’è importante.»
Annuì. «Keats. Nato nell’a.D. 1795. Morto di tubercolosi nel 1821. John Keats.»
Seguire qualcuno attraverso una serie di cambi di teleporter è quasi impossibile, maledizione. Soprattuto se non vuoi che se ne accorga. Gli sbirri della Rete possono farlo, se rifilano l’incarico a una cinquantina di agenti provvisti di giocattoli d’alta tecnologia molto costosi e di limitata diffusione, per non parlare dell’aiuto dell’Ente Transiti. Per chi lavora da solo, il compito è quasi impossibile.
Eppure per me era abbastanza importante scoprire dove il mio nuovo cliente era diretto.
Johnny non si guardò indietro, mentre attraversava la piazza del terminex. Mi spostai accanto a un chiosco lì vicino; servendomi della mia olocamera tascabile, lo guardai battere i codici su un diskey manuale, inserire la carta e varcare il rettangolo luminoso.
L’uso del diskey manuale probabilmente significava che Johnny era diretto a un portale pubblico, perché i codici di teleporter privati di solito sono impressi in chip riservati. Magnifico. Avevo limitato la sua destinazione a due milioni di portali su più di centocinquanta mondi e settantacinque lune della Rete.
Con una mano tirai fuori del soprabito la mia “fodera” rossa, mentre azionavo il replay dell’olocamera e guardavo l’ingrandimento della sequenza battuta sul diskey. Tolsi di tasca un cappello rosso intonato alla mia nuova giacca rossa e mi abbassai sugli occhi la tesa. Attraversai rapidamente la piazza e interrogai il mio comlog sul codice di trasferimento di nove cifre appena visto nell’olocamera. Sapevo che le prime tre cifre indicavano il mondo di Tsingtao-Hsishuang Panna (avevo imparato a memoria tutti i prefìssi planetari) e un istante dopo seppi che il portale si trovava in un distretto residenziale della città della Prima Espansione Wansiehn.
Mi diressi rapidamente alla prima cabina libera e mi teleportai lì; uscii in una piccola piazza terminex, con il selciato di mattoni consunti. Antichi negozietti orientali s’addossavano l’uno all’altro; le gronde dei tetti a pagoda sovrastavano le strette vie laterali. La gente affollava la piazza e stava ferma sulla porta degli edifici; e, mentre la maggior parte delle persone che vedevo discendeva chiaramente degli esuli della Lunga Fuga che si erano stabiliti su THP, parecchi erano senza dubbio forestieri di altri mondi. L’aria odorava di vegetazione aliena, di fogna, di riso bollito.
«Maledizione» mormorai. Lì c’erano altri tre portali e nessuno era in attività. Forse Johnny si era teleportato immediatamente.
Invece di tornare su Lusus, passai qualche minuto a controllare la piazza e le vie laterali. Intanto, la pillola di melanina inghiottita poco prima aveva fatto effetto: sembravo una ragazza negra… o un ragazzo (difficile dirlo, considerato l’ampio giaccone rosso alla moda e il visore polarizzato) che girava oziosamente e scattava fotografie con la sua olocamera da turista.
La pillola tracciante che avevo sciolto nella seconda birra di Johnny aveva avuto tutto il tempo di entrare in funzione. Le microspore positive agli ultravioletti erano ancora nell’aria… potevo quasi seguire la scia delle esalazioni lasciate da Johnny. Invece, su una parete scura scoprii l’impronta giallo vivo di una mano (giallo vivo grazie al mio visore opportunamente adattato, è ovvio, ma invisibile al di fuori dello spettro ultravioletto) e seguii una pista di macchie sbiadite nei punti in cui i suoi abiti saturi avevano sfiorato i banchi del mercato o la pietra.
Johnny stava mangiando in un ristorante cantonese a meno di due isolati dalla piazza del terminex. Il cibo fritto aveva un profumino delizioso, ma non entrai: guardai i prezzi affissi ai banchi del vicolo e mi trattenni nel mercato per un’ora almeno, prima che Johnny terminasse, tornasse nella piazza e usasse il teleporter. Questa volta si servì di un chip in codice (un portale privato, forse una casa privata) e io corsi due rischi, usando la mia carta pesce-pilota per seguirlo. Due rischi: prima di tutto perché la carta è assolutamente illegale e un giorno o l’altro mi costerà la licenza, se mi beccano (cosa men che probabile se continuo a usare il chip cambiaforma, disgustosamente costoso ma esteticamente perfetto, di papà Silva); e in secondo luogo perché avevo ottime possibilità di emergere nel soggiorno di Johnny… situazione da cui non è mai facile venire fuori solo a parole.
Non era il suo soggiorno. Ancora prima di individuare le targhe stradali, avevo riconosciuto la pressione ben nota della gravità superiore, la fosca luce color bronzo, l’odore di benzina e di ozono nell’aria, e avevo capito di trovarmi sul mio mondo natale, Lusus.
Johnny si era teleportato in una torre privata residenziale di media sicurezza, in uno degli Alveari di Bergson. Forse proprio per questo aveva scelto la mia agenzia: eravamo quasi vicini di casa, separati da meno di seicento chilometri.
Il cìbrido non era in vista. Camminai a passo deciso per non mettere in allarme qualche schermo di sicurezza programmato per reagire ai perditempo. Non c’era l’elenco degli inquilini, e neppure numeri o nomi sulla porta degli alloggi, né una guida accessibile al comlog. Calcolai che l’Alveare Bergson Est comprendeva almeno ventimila minialloggi residenziali.
La traccia diventava meno visibile a mano a mano che la coltura di spore si esauriva, ma dovetti controllare solo due corridoi radiali prima di trovare la pista buona. Johnny abitava piuttosto fuori, in un’ala pavimentata in vetro nei pressi di un lago di metano. La serratura a impronta del palmo mostrava una debole traccia luminosa. Mi servii dei miei arnesi da scasso per effettuare una rapida lettura del lucchetto, poi mi teleportai a casa.
Tutto sommato, avevo visto il mio uomo andare a pranzo in un ristorante cinese e poi tornare a casa per la notte. Per il primo giorno poteva bastare.
BB Surbringer era il mio esperto in IA. BB lavorava al Controllo Flusso Registrazioni e Statistiche: passava la maggior parte della vita sdraiato su una cuccetta a caduta libera, con cinque o sei microcavi che gli spuntavano dal cranio, in comunicazione con altri burocrati in piano dati. L’avevo conosciuto al college, quando era un puro cyberpuke, cybervomito, un hacker della ventesima generazione, corticalmente shuntato già a dodici anni standard. In realtà si chiamava Ernest, ma si era guadagnato il nomignolo BB quando era uscito con la mia amica Shayla Toyo. Al secondo appuntamento Shayla l’aveva visto nudo e aveva riso per mezz’ora buona: Ernest era, ed è, alto quasi due metri, ma pesa meno di cinquanta chili. Shayla aveva detto che aveva le chiappe che sembravano due B e, come avviene per molte cose crudeli, a Ernest il nomignolo era rimasto.
Andai a trovarlo in uno dei monoliti da lavoro privi di finestre di TC2. Niente torri di nuvole, per BB e la sua genia.
«Allora, Brawne» disse. «Come mai, alla tua età, cerchi informazioni erudite? Sei troppo vecchia per cercare un lavoro vero.»