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Lo raggiunsi a cena nel piccolo ristorante di via del Drago Rosso, nelle vicinanza del portale Tsingtao-Hsishuang Panna. Il cibo era caldissimo, molto piccante, davvero buono.

«Come va?» mi chiese.

«A meraviglia. Sono di mille marchi più ricca di quando ci siamo conosciuti e ho scoperto un buon ristorante cantonese.»

«Sono lieto che il mio denaro serva a qualcosa d’importante.»

«A proposito di denaro… da dove le arriva? Ciondolare nella biblioteca di Vettore Rinascimento non rende molto.»

Johnny inarcò il sopracciglio. «Vivo di una… piccola eredità.»

«Non troppo piccola, mi auguro. Voglio essere pagata.»

«Basterà per il suo onorario, signora Lamia. Ha scoperto qualcosa d’interessante?»

Scrollai le spalle. «Mi dica cosa va a fare in quella biblioteca.»

«Lo ritiene pertinente?»

«Già, potrebbe esserlo.»

Mi fissò con curiosità. Qualcosa, nel suo sguardo, mi fece diventare molli le ginocchia. «Lei mi ricorda una persona» disse piano.

«Oh?» Detta da chiunque altro, quella frase sarebbe stata l’inizio della fine. «Chi?» domandai.

«Una… una donna che ho conosciuto. Molto tempo fa.» Si strofinò la fronte, come se all’improvviso si sentisse stanco o confuso.

«Come si chiamava?»

«Fanny.» La parola fu quasi un sussurro.

Sapevo di chi parlava. John Keats aveva avuto una fidanzata di nome Fanny. Il loro romanzetto d’amore era stato una serie di frustrazioni romantiche che aveva quasi spinto alla pazzia il poeta. Quando era morto in Italia, solo, a parte un compagno di viaggio, sentendosi abbandonato dagli amici e dall’amata, Keats aveva chiesto che con lui fossero sepolte le lettere non aperte di Fanny e un ricciolo dei suoi capelli.

Soltanto una settimana prima non avevo mai sentito parlare di John Keats: mi ero procurata quelle stronzate grazie al comlog. Dissi: «Allora, cosa fa nella biblioteca?».

Il cìbrido si schiarì la voce. «Cerco un poema. Frammenti dell’originale.»

«Un poema di Keats?»

«Sì.»

«Non sarebbe più facile accedere a una banca dati?»

«Certo. Ma per me è importante vedere l’originale… toccarlo.»

Riflettei su quelle parole. «Di cosa parla, il poema?»

Sorrise… o almeno, le sue labbra si schiusero in un sorriso. Gli occhi color nocciola sembravano ancora turbati. «Si intitola Hyperion. Difficile dire di cosa… di cosa parli. Fallimento artistico, immagino. Keats non lo terminò.»

Scostai il piatto e sorseggiai il tè caldo. «Lei dice che Keats non lo terminò. Intende dire che lei non l’ha mai terminato?»

La sua aria sorpresa era senz’altro genuina… a meno che le IA non siano attori consumati. Per quanto ne sapevo, era possibile. «Buon Dio» disse. «Io non sono John Keats. Il fatto di avere una personalità basata sul suo stampo recuperato non mi fa essere Keats, come il fatto che lei si chiami Lamia non la fa essere un mostro. Ci sono milioni di induzioni che mi separano da quel genio povero e triste.»

«Ha detto che le ricordavo Fanny.»

«L’eco d’un sogno. Meno. Lei ha preso la medicina di apprendimento RNA, vero?»

«Sì.»

«È la stessa cosa. Ricordi che sembrano… vuoti.»

Un cameriere umano portò i biscotti della fortuna.

«Le interessa visitare il vero Hyperion?» domandai.

«Sarebbe?»

«Il pianeta periferico. Da qualche parte al di là di Parvati, mi pare.»

Johnny sembrò perplesso. Aveva spezzato in due il biscotto, ma ancora non aveva letto il bigliettino.

«Mi pare che una volta lo chiamassero il Mondo dei Poeti» dissi. «Ha perfino una città con il nome del suo… di Keats.»

Il giovanotto scosse la testa. «Mi spiace, ma non ne ho mai sentito parlare.»

«Possibile? Le IA non sanno tutto?»

La sua risata fu breve e acuta. «Questa qui sa ben poco.» Lesse il bigliettino: DIFFIDATE DEGLI IMPULSI IMPROVVISI.

Incrociai le braccia. «Sa, a parte quel trucchetto con l’ologramma del direttore di banca, non ho alcuna prova che lei sia quel che sostiene di essere.»

«Mi dia la mano.»

«La mano?»

«Sì, una o l’altra. Grazie.»

Johnny strinse fra le sue la mia destra. Le sue dita erano più lunghe delle mie. Le mie erano più forti.

«Chiuda gli occhi» disse.

Li chiusi. Non ci fu transizione: un istante prima ero seduta dentro il Loto Azzurro in via del Drago Rosso e l’istante dopo ero… da nessuna parte. Da qualche parte. Andavo come un lampo attraverso un piano dati grigiazzurro, curvavo lungo strade d’informazione giallo cromo, passavo sopra sotto attraverso grandi città di lucenti depositi dati, rossi grattacieli incapsulati nell’oscuro “ghiaccio” di protezione, entità semplici come conti personali o file aziendali che ardevano nella notte, simili a raffinerie in fiamme. Al di sopra di tutto, appena fuori vista, come sospesi in spazio contorto, incombevano le gigantesche masse delle IA, le loro comunicazioni che pulsavano come violenti fulmini di calore lungo orizzonti infiniti. Da qualche parte, in lontananza, quasi perduto nel labirinto di neon tri-di che divideva un solo minuscolo secondo d’arco nell’incredibile sfera dati di un solo piccolo mondo, percepii, più che vedere, i tranquilli occhi nocciola che mi fissavano.

Johnny mi lasciò la raano. Spezzò il mio biscotto. Sulla strisciolina di carta c’era scritto: INVESTITE SAGGIAMENTE IN NUOVE SPECULAZIONI.

«Oddio» mormorai. BB mi aveva già portato a volare nel piano dati, ma sènza uno shunt quell’esperienza era stata l’ombra di questa: come guardare uno spettacolo di fuochi artificiali in un ologramma in bianco e nero o essere presenti di persona. «Come ha fatto?»

«Domani farà progressi nella soluzione del caso?» domandò lui.

Riacquistai la mia compostezza. «Domani» dissi «conto di risolverlo.»

Be’, non proprio di risolverlo, forse, ma almeno di mettere in movimento le cose. L’ultima spesa sulla velina di Johnny riguardava il bar su Vettore Rinascimento. Avevo controllato il primo giorno, ovviamente; avevo parlato con parecchi clienti abituali, dal momento che il barista non era umano, ma avevo scoperto che nessuno si ricordava di Johnny. Ci ero tornata due volte senza maggior fortuna, ma il terzo giorno ero decisa a restare finché non fosse successo qualcosa.

Il bar non apparteneva di sicuro al genere tutto legno e ottone come quello dov’era andata con Johnny su TC2. Questo era un locale al primo piano di un edificio malandato, in un quartiere cadente a due isolati dalla biblioteca in cui Johnny passava le giornate. Non era il genere di locale in cui si sarebbe fermato lungo il percorso per raggiungere la piazza, solo il tipo di bar in cui poteva finire se incontrava qualcuno nella biblioteca o nelle vicinanze… qualcuno che volesse parlargli in privato.

Ero lì dentro da sei ore e cominciavo a essere maledettamente stufa di noccioline salate e di birra, quando entrò un anziano rottame umano. Immaginai che fosse un cliente abituale perché non si soffermò sulla soglia e non si guardò intorno, ma puntò direttamente a un tavolino sul fondo e ordinò un whisky prima ancora che il mecc di servizio si fermasse. Quando mi avvicinai al suo tavolo, capii che era non un vero rottame, ma piuttosto un campione degli individui esausti che avevo visto nei negozi di paccottiglia e nei banchetti stradali del quartiere. Mi fissò con due occhi velati dalla disfatta.