«Posso sedermi?»
«Dipende, sorella. Cosa vendi?»
«Compro.» Mi sedetti, posai sul tavolo il boccale di birra e lasciai scivolare sul piano una foto di Johnny che entrava nella cabina del teleporter su TC2. «Hai mai visto questo tipo?»
Il vecchio diede un’occhiata alla foto e si concentrò di nuovo sul suo whisky. «Può darsi.»
Chiamai il mecc per un altro giro. «Se l’hai visto, è il tuo giorno fortunato.»
Il vecchio sbuffò e col dorso della mano si strofinò la guancia mal rasata. «Sarebbe la prima volta da un merdoso mucchio di tempo.» Si concentrò su di me. «Quanto? Per cosa?»
«Informazioni. Quanto, dipende dall’informazione. L’hai visto?» Tirai fuori di tasca una banconota da mercato nero, un cinquanta marchi.
«Sì.»
La banconota scese sul tavolo, ma rimase nella mia mano. «Quando?»
«Martedì scorso. Martedì mattina.»
Il giorno era giusto. Spinsi verso di lui i cinquanta marchi e presi un’altra banconota. «Era solo?»
Il vecchio si leccò le labbra. «Fammi pensare… Non credo… no, era là.» Indicò un tavolo in fondo. «Con due tizi. Uno di loro… be’, è per questo che me ne ricordo.»
«Cioè?»
Il vecchio fregò pollice e indice in un gesto antico come l’avidità.
«Parlami dei due uomini» incalzai.
«Il giovanotto… il tuo uomo… era con uno di loro. Sai, quegli scherzi di natura con la tonaca. Li vedi alla TVE ogni momento. Loro e i loro maledetti alberi.»
“Alberi?” «Un Templare?» esclami, stupita. Che cosa ci faceva un Templare in un bar di Vettore Rinascimento? Se dava la caccia a Johnny, perché indossava la tonaca? Era come se un assassino andasse a compiere il delitto vestito da pagliaccio.
«Sì. Un Templare. Tonaca marrone, aspetto vagamente orientale.»
«Uomo?»
«Sì, l’ho già detto.»
«Puoi descriverlo meglio?»
«No. Era un Templare. Un figlio di puttana altissimo. Non l’ho visto bene in faccia.»
Il vecchio si strinse nelle spalle. Presi un’altra banconota e la misi vicino alla prima accanto al mio boccale.
«Sono arrivati insieme?» lo spronai. «Tutt’e tre?»
«Non so… non posso… No, un momento. Il tuo uomo e il Templare sono entrati per primi. Mi ricordo di aver notato la tonaca prima che l’altro si sedesse.»
«Descrivimi l’altro uomo.»
Il vecchio chiamò il mecc e ordinò un terzo whisky. Usai la mia carta e il servitore scivolò via sui respingenti rumorosi.
«Come te» disse il vecchio. «Sul tuo genere.»
«Basso? Braccia e gambe robuste? Lusiano?»
«Già. Credo. Mai visto qui prima.»
«E poi?»
«Niente capelli. Solo una comesichiama che mia nipote portava sempre. Una coda di cavallo.»
«Un codino» dissi.
«Sì. Chiamalo come ti pare.» Allungò la mano verso le banconote.
«Ancora un paio di domande. Hanno avuto discussioni?»
«No, non mi sembra. Parlavano a voce molto bassa. Il locale è quasi vuoto, a quell’ora.»
«Che ore erano?»
«Mattina. Circa le dieci.»
Coincideva con il codice segnato sulla velina di credito.
«Hai sentito qualche brano di conversazione?»
«Ah-ah.»
«Chi parlava di più?»
Il vecchio bevve un sorso e corrugò la fronte, riflettendo. «Prima il Templare. Il tuo uomo sembrava che rispondesse e basta. Mi è sembrato che avesse un’aria sorpresa, una volta che l’ho guardato.»
«Sconvolto?»
«No, solo sorpreso. Come se il tipo con la tonaca avesse detto qualcosa che lui non si aspettava.»
«All’inizio ha parlato soprattutto il Templare, hai detto. E poi? Il mio uomo?»
«Ah-ha, quello con la coda di cavallo. Poi sono, usciti.»
«Tutt’e tre?»
«No. Il tuo, e coda di cavallo.»
«Il Templare è rimasto dentro?»
«Sì. Mi pare. Sono andato al cesso. Al ritorno, non credo che fosse ancora qui.»
«Da che parte sono andati, gli altri due?»
«Non lo so, maledizione. Non ci stavo attento. Bevevo, non giocavo alle spie!»
Annuii. Il mecc rotolò di nuovo dalla nostra parte. Con un cenno lo allontanai. Il vecchio, accigliato, gli fissò la schiena.
«Allora, non discutevano, uscendo? Nessun segno di disaccordo? Uno non costringeva l’altro a uscire?»
«Chi?»
«Il mio tipo e Codino.»
«Merda, non lo so.» Diede un’occhiata alle banconote strette fra le dita sudice e al whisky nella vetrinetta del mecc: capì, forse, che da me non avrebbe più ottenuto né soldi né liquore. «E poi, perché vuoi sapere tutte queste stronzate?»
«Cerco il giovanotto» risposi. Diedi un’occhiata al bar. Ai tavolini sedeva una ventina di clienti. La maggior parte sembrava gente del quartiere, clienti abituali. «Qui c’è qualcun altro che possa averli visti? O qualcuno che ti ricordi di avere visto qui dentro?»
«Ah-ah» rispose lui, ottusamente. Mi accorsi in quel momento che gli occhi del vecchio erano dell’esatto colore del whisky che beveva.
Mi alzai e misi sul tavolo un’ultima banconota da venti. «Grazie, amico.»
«Sempre a tua disposizione, sorella.»
Prima che arrivassi alla porta, il mecc stava già ruotando verso di lui.
Tornai a piedi verso la biblioteca e mi fermai un attimo nella piazza affollata del teleporter. Ci rimasi un minuto. Scenario fino a quel momento: Johnny incontra il Templare o viene avvicinato da lui, nella biblioteca o all’esterno, la mattina appena arriva. Vanno a parlare in privato, nel bar. Una frase del Templare sorprende Johnny. Un uomo col codino, forse un lusiano, arriva e prende in mano la conversazione. Johnny e Codino escono insieme. In un imprecisato momento successivo, Johnny si teleporta su TC2 e poi da lì, con un’altra persona — forse Codino, o il Templare — va su Madhya, dove qualcuno cerca d’assassinarlo. Anzi, lo assassina.
Troppi buchi. Troppi “qualcuno”. Troppo poco da riferire, per una giornata di lavoro.
Ero incerta se tornare subito su Lusus, quando il comlog trillò sulla frequenza protetta che avevo riservato a Johnny.
Aveva la voca rauca. «Signora Lamia. Venga subito, per favore. Credo che ci abbiano appena riprovato. A uccidermi.» Le coordinate che seguirono erano quelle dell’Alveare Bergson Est.
Corsi al teleporter.
La porta del minialloggio di Johnny era socchiusa. Non c’era nessuno nel corridoio e dall’interno non arrivavano rumori. Qualsiasi cosa fosse accaduto, non aveva ancora richiamato le autorità.
Con un unico movimento, estrassi dalla tasca della giacca la pistola di papà, misi il colpo in canna e accesi il laser di puntamento.
Entrai tenendomi bassa, con le braccia tese in avanti, mentre il puntino rosso scivolava sulle pareti scure, su una stampa a buon mercato appesa alla parete opposta, in un corridoio più buio che portava nel minialloggio. L’anticamera era deserta. Il soggiorno e la piazzuola per gli ologrammi erano vuoti.
Johnny giaceva sul pavimento della camera da letto, con la testa contro il materasso. Il sangue inzuppava le lenzuola. Cercò di alzarsi e ricadde. Dietro di lui la porta scorrevole era aperta: dal viale sottostante soffiava un’aria umida di vapori industriali.
Controllai l’unico armadio, il breve corridoio, l’angolo cottura; tornai indietro e uscii sul balcone. La vista era spettacolare, da quel posatoio a duecento e passa metri sulla parete ricurva dell’Alveare, sopra i dieci, venti chilometri del Trench Mall. Il tetto dell’alveare era una massa scura di travi, un altro centinaio di metri più in alto. Migliaia di luci, di ologrammi pubblicitari e di neon, splendevano dal Mall e formavano nella nebbiolina della distanza un’immagine elettrica, vivida e confusa.