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Ben Bova

I condannati di Messina

I

Il Presidente Generale, con le mani dietro la schiena leggermente ricurva, passeggiava avanti e indietro sul tappeto dello studio. Infine, si fermò davanti alle ampie vetrate che guardavano la città.

C’era poco da vedere di Messina Antica. La città originaria, con le sue vecchie chiese e le case di un bianco abbagliante sotto il sole violento della Sicilia, era stata inghiottita dalle torri di vetro e metallo del governo mondiale, un complesso che comprendeva uffici, centri per congressi, alberghi, edifici residenziali, negozi e quartieri di divertimento, destinati ai cinque milioni di uomini e donne cui era toccato in sorte di governare gli altri venti miliardi di abitanti, sparsi per tutto il pianeta.

Nel suo ufficio acusticamente isolato, fornito di aria condizionata, all’ultimo piano del grattacielo più alto della città, il Presidente Generale non sentiva il brusio incessante delle strade affollate, né il rombo ininterrotto delle automobili e dei turbocar che correvano lungo le sopraelevate congestionate di traffico.

Se non altro siamo riusciti a salvare parte della città vecchia, pensò. Era stato uno dei suoi primi successi, in politica mondiale. Una cosa minima; comunque, lui aveva contribuito a contenere la crescita di Messina Nuova, prima che questa soffocasse e inghiottisse del tutto la città antica. Da quasi trent’anni, ormai, il nuovo centro aveva mantenuto le stesse proporzioni.

Al di là delle imbarcazioni da pesca allineate nel porto, lo stretto brillava nel sole, invitante. Più lontano, c’era la punta dello stivale d’Italia, la Calabria, dove i contadini conservavano ancora l’antica fierezza. E, oltre le alture velate e azzurrine della Calabria, luccicanti sotto il calore, l’azzurro più intenso del cielo era troppo luminoso per potervi fissare lo sguardo.

Il vecchio sapeva perfettamente che era impossibile, eppure gli sembrava di intravedere in quel cielo abbagliante il lampo di una delle grandi stazioni orbitali, ruotanti là in alto. Si strofinò leggermente gli occhi all’attaccatura del naso, in un gesto di stanchezza. Quel giorno avvertiva particolarmente il peso degli anni.

Gli venne in mente la sua São Paulo, dov’era nato, e che ormai si allargava come una piaga infetta, dal fiume fino al mare, livellando le colline, spazzando via la foresta, scoppiando sotto un numero inverosimile di abitanti, al punto che neanche i calcolatori del Centro di Controllo Demografico erano in grado di tenervi dietro. Chi aveva un po’ di buon senso evitava di mettere piede, di propria volontà, nel cuore di São Paulo, come, del resto, in qualsiasi altra grande città della Terra. Era impossibile che un essere umano vivesse nelle viscere formicolanti di una metropoli senza impazzire.

Eppure, quanto si erano dati da fare per salvare le città! E come avevano lavorato sodo per rendere il mondo stabile e sicuro.

Sul tavolo, il citofono ronzò.

— Pronto? — Il Presidente passò automaticamente dalla lingua portoghese in cui formulava i suoi pensieri all’inglese, lingua ufficiale del governo mondiale.

La segretaria capì al volo di che umore era e invece della solita aria cordiale assunse un’espressione seria. — Sono arrivati, signore.

Un cenno di assenso. — Molto bene. Fateli passare.

Sei uomini e due donne entrarono nel grande ufficio e andarono a prendere posto al tavolo delle conferenze; le due donne si sedettero in fondo al tavolo, dalla parte delle vetrate, vicino alla sedia del Presidente. Non avevano con sé né fogli né borse. Ogni posto era dotato di un piccolo citofono e di uno schermo, collegati con il calcolatore centrale.

Sono giovani energici, pensava il Presidente. Sanno perfettamente che cosa si deve fare e hanno la forza per farlo. Appena questa faccenda sarà sistemata, mi ritirerò.

Prese posto, a malincuore, a un’estremità del lucidissimo tavolo di mogano. Gli altri rimasero in silenzio, aspettando che prendesse la parola. Nella stanza, l’unico rumore udibile era il fruscio quasi impercettibile del nastro dell’elaboratore.

Il Presidente si schiarì la voce. — Buongiorno. Lunedì scorso abbiamo discusso la situazione e voi mi avete comunicato i suggerimenti. Vi ho chiesto di prendere in considerazione le possibili alternative. Dalle espressioni delle vostre facce, si direbbe che non è stata trovata un’alternativa valida.

Si voltarono tutti verso il Ministro della Sicurezza, Vassily Kobryn, un uomo tarchiato, dalla faccia tonda. Il ministro aveva un fisico da atleta, pelle abbronzata, capelli scuri, corti e ispidi, spalle e braccia muscolose.

Kobryn, muovendosi sulla sedia con un certo disagio, disse: — A quel che vedo, sono stato scelto io per assestare il colpo. — Aveva una voce bassa e vibrante e un leggerissimo accento slavo. — E va bene… è stata una mia idea, inizialmente. Abbiamo preso in considerazione tutte le possibilità, affidando ogni singolo caso agli elaboratori. L’unica soluzione sicura è mandarli in esilio. Perpetuo.

— In Siberia — mormorò una delle donne.

— No, non in Siberia — rispose Kobryn, che l’aveva presa alla lettera. — È troppo popolata. Ci sono troppe città, troppe fattorie perché si tratti di un esilio effettivo. No, l’unico posto possibile è la nuova stazione spaziale. È sufficientemente grande e assicurerà un isolamento completo.

Rolf Bernard, il Ministro delle Finanze, scosse la testa. — Continuo a non essere d’accordo. Duemila scienziati, tra i più eminenti della Terra…

— Oltre le mogli e le famiglie — aggiunse il Presidente.

— Ma voi, che cosa preferireste? — scattò Kobryn. — Una pallottola piantata nel cranio di ciascuno di loro? O li lascereste fare, in modo che distruggano tutto quello per cui abbiamo lavorato?

— Forse, se si parlasse con loro…

— Non servirebbe — disse Eric Mottern, il taciturno Ministro della Tecnologia. — Anche ammesso che vogliano collaborare con noi, non è possibile impedire alle idee di trapelare. E una volta che l’idea di un’ingegneria genetica si diffonda…

— Il mondo ne verrà sconvolto — disse il Presidente. Parlava con voce appena percettibile, ma sentirono tutti. Con un sospiro confessò: — Ho riflettuto sul problema. Ho cercato un’alternativa. Non ne esistono. L’esilio è l’unica risposta possibile.

— Allora è approvato. Bene! — disse Kobryn.

— No, non bene — disse il Presidente Generale. — Tutt’altro che bene. Approvando questa soluzione, noi ammettiamo il nostro fallimento. Ammettiamo la paura, il terrore. Siamo atterriti davanti a un’idea nuova, a una scoperta scientifica nuova. Il governo mondiale, i protettori della pace e della stabilità, si vedono costretti a mandare in esilio alcune delle menti più eccelse del mondo. È una cosa terribile, tremenda.

II

Lou Christopher si appoggiò allo schienale della sedia e posò i piedi sul tavolo: era la sua posizione preferita per pensare. Teneva sulle ginocchia una tavoletta e una penna. Benché fosse preoccupato e perplesso, la sua faccia non lo rivelava affatto. Sembrava, più che altro, irritato.

Attraverso il divisorio in plastiglass, che costituiva una parete del suo ufficio, Lou teneva d’occhio Ramo, l’elaboratore principale dell’Istituto, che quando era in funzione era tutto un lampeggiare di quadranti e luci-spia.

Forza, Ramo, pensò, vediamo di farcela, stavolta.

Lou, mentre guardava il piccolo schermo sulla scrivania, tamburellava nervosamente con la penna sulla tavoletta. In quel momento, lo schermo era vuoto. Poi…

— Mi dispiace — disse Ramo con una voce calda e baritonale, che scendeva dall’altoparlante sistemato nel soffitto, — ma le permutazioni possibili sono ancora di tre ordini di grandezza superiori alle mie istruzioni programmate.