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Pochi minuti dopo, avevano preso quota e sfrecciavano a velocità supersonica al di sopra del paese. Fecero una breve sosta a New Washington per rifornirsi di carburante, poi puntarono sull’Atlantico, lasciandosi alle spalle il sole al tramonto. Lou dormiva, mentre l’apparecchio sfrecciava nella notte.

Lo scandinavo lo svegliò poco prima dell’atterraggio. Fuori era buio e senza luna, e le sole luci che si vedevano in basso delineavano una pista. Appena sceso a terra, Lou fu prelevato da una macchina in attesa, che lasciò l’aeroporto all’istante. Il nordico gli sedeva accanto in silenzio mentre, sui sedili anteriori, due individui bruni chiacchieravano tra loro in italiano. Lou riusciva a malapena a vedere la stretta striscia di asfalto illuminata dai fari, però aveva l’impressione di passare in mezzo a colline, e a fattorie e ad alberi agitati dalla brezza, nell’oscurità. La notte era calma e dolce, come sempre nei paesi di mare, molto diversa dalle notti nel deserto del Nuovo Messico.

Dopo un poco, oltrepassarono un cancello, sorvegliato da due sentinelle. Poi la macchina imboccò un viale che portava a un portale d’ingresso scolpito e illuminato da antiche lanterne. Una tettoia lo riparava dal sole e dall’acqua. Non era facile dire quanto fosse grande il palazzo, ma nel buio dava l’impressione di essere enorme. Una villa, pensò Lou, mentre il veicolo si fermava di fronte all’ingresso.

Lo scandinavo scese per primo e tenne aperto lo sportello, mentre Lou si spostava lungo il sedile e scendeva a sua volta. In lontananza, si sentiva il sospiro della risacca su una spiaggia.

— D’ora in poi, questa sarà casa vostra — disse l’uomo del nord, indicandogli la porta barocca, scolpita. — Troverete molti dei vostri amici, qui.

Si fermò mentre Lou, lentamente e con una certa esitazione, percorreva il vialetto lastricato e cercava di aprire la porta. Il battente cedette sotto la sua mano. Lou si voltò a guardare lo scandinavo, che gli sorrideva, salutandolo.

— Il vostro compito è finito, vero?

— Sì — rispose l’altro. — Voi eravate l’ultimo della lista.

Che lista? aveva voglia di chiedere Lou, ma ormai sapeva che non avrebbe avuto risposta. Varcò la soglia della villa e la porta si richiuse da sola alle sue spalle. Lou era sicuro che si fosse bloccata automaticamente. Non tentò nemmeno di aprirla. Rimase in piedi, solo, nel grande atrio. In fondo, un grande scalone portava, con un’ampia curva, ai piani superiori. Ai due lati dell’atrio, si aprivano porte massicce di legno vero e le pareti erano adorne di dipinti. Per la maggior parte ritratti. Sulle scale una vecchia pendola rintoccò. L’una di notte.

Lou percorse lentamente l’atrio, e i suoi passi risuonarono sulla geometria intricata del pavimento. Nessun rumore… no, un momento; da dietro una porta provenivano voci smorzate. Si diresse da quella parte e aprì.

Sei o sette uomini erano seduti attorno a un tavolo, al centro della stanza. Si trattava, evidentemente, di una biblioteca o di uno studio, e i libri rivestivano interamente le pareti, fatta eccezione per un paio di porte-finestre spalancate, all’estremità della sala. Le tende leggere si muovevano dolcemente nella brezza che soffiava dal mare. La stanza era in penombra e la maggior parte degli uomini intorno al tavolo voltava le spalle alla porta e a Lou. Uno di loro alzò gli occhi.

— Lou! Hanno preso anche te! — Era Greg Belsen.

Gli altri si voltarono a guardarlo. Appartenevano tutti all’Istituto: Ron Kurtz, Charles Sutherland, Jesse Maggio, Bob Richardson. A capo tavola, il dottor Adrian Kaufman, direttore dell’Istituto. Il dottor Kaufman era un bell’uomo, vigoroso, con una faccia leonina completata da una folta capigliatura grigia. In quel momento, però, sembrava estremamente affaticato e insicuro.

— Christopher — disse il dottor Kaufman, corrugando la fronte. — Cosa diavolo fai, qui?

Lou sorrise suo malgrado. — Non è stata certo una mia idea di venire fin qui, credimi.

Lou si avvicinò al tavolo. Nella sala non c’erano altre seggiole e fu costretto a rimanere in piedi.

— Ma perché vi hanno portato qui? — chiese il dottor Kurtz. Aveva circa l’età di Lou, ma la barba scura e fitta gli dava un’aria più vecchia. — Finora c’erano solo scienziati, qua dentro.

Per scienziati Kurtz intendeva genetisti e biochimici.

— Esatto — convenne il dottor Maggio. — Hanno portato qui soltanto il gruppo tecnico. Le segretarie e l’altro personale sono stati lasciati in pace.

— Effettivamente io sono un tecnico — intervenne Lou.

— Ma un tecnico dell’elaboratore, non un genetista — disse il dottor Kurtz.

— Né un biochimico — aggiunse il dottor Richardson, che era appunto un biochimico.

— Forse chi ci ha arrestato ignora la differenza tra tecnici dell’elaboratore e genetisti — disse Lou, con irritazione crescente. — Forse si sono limitati a dare ordine di prelevare l’intero gruppo tecnico. Certo, non hanno perso tempo a chiedermi la laurea.

— Ecco che cosa vuol dire affinità — disse Greg Belsen. — Certo, se cominciano ad ammettere anche quelli dell’elaboratore, Dio solo sa dove andremo a finire.

Gli scienziati scoppiarono tutti a ridere. Greg, com’era evidente, cercava di accorciare le distanze tra il gruppo degli scienziati e Lou. Era una vecchia ferita, quel sistema di caste. All’Istituto, in circostanze normali, passava inosservato. Ma lì, in quel posto inconsueto, veniva immediatamente a galla. Ed era un punto dolente.

Il dottor Richardson cambiò argomento. — Avete un’idea del perché ci troviamo qui?

— Hai usato la parola arrestato — disse il dottor Kaufman a Lou. — Per quanto ne so, nessuno di noi è in arresto. Siamo stati portati qui contro la nostra volontà, questo è vero. Ma non ci hanno accusati di nessun reato.

— Si direbbe piuttosto un rapimento.

— Io sono stato arrestato dagli sceriffi federali — disse Lou. — Nessuna imputazione, ma se avessi tentato di fuggire avrebbero aperto il fuoco. E l’Istituto è stato chiuso in permanenza, l’ho scoperto stamattina.

— In permanenza! — La parola fece il giro della tavola, come un’onda d’urto.

— Non capisco — disse il dottor Maggio, accigliato. — Chi l’ha fatto? E perché?

— È evidente: il governo mondiale — disse Richardson.

— Ma perché?

— Perché hanno una tremenda paura dell’ingegneria genetica. Sono spaventati all’idea di cosa succederà se realizziamo i nostri progetti.

— Non ci credo.

— No? E allora, datti un’occhiata attorno.

Greg Belsen disse: — Il vero problema è questo: che cosa faremo?

— Che cosa possiamo fare?

Abbassando gli occhi sulla superficie lucida del tavolo, il dottor Kurtz borbottò nella barba: — Cercare di andarcene. Scappare.

— Come? — chiese Sutherland. — Dove?

— Mi hanno dato la caccia attraverso tutto il paese — disse Lou. — Può darsi che l’ordine sia venuto dal governo mondiale, che però ha avuto l’appoggio di un sacco di federali.

Il dottor Kaufman incrociò le mani sul ventre. — Ci troviamo a migliaia di chilometri da casa, su un’isola dove è facile essere individuati come forestieri. Anche ammesso che riuscissimo ad abbandonare questa villa non andremmo lontano.

Lou ebbe un’ispirazione improvvisa. — Forse non è necessario andare lontano. Basterà parlare con un giornalista. Chiunque sia dietro quest’affare sicuramente cerca di tenere tutto nascosto. Quando mi davano la caccia, non hanno nemmeno avvertito la polizia locale. E non ho sentito annunciare la chiusura dell’Istituto in nessun notiziario.

Con un sorriso sarcastico, Sutherland disse: — Insomma, vi offrite volontario per scavalcare il muro e portarci qui un giornalista. Il quale farà sapere al mondo intero che siamo stati rapiti, o qualcosa del genere.