Nel frattempo, nuvoloni scuri si erano addensati in cielo, e quando superarono il cancello di un’altra villa antica con le solite sentinelle in divisa che salutavano sull’attenti, le nuvole incombevano minacciose, tra il brontolio di tuoni e il balenare dei lampi. Era scuro come se fosse sera, sebbene fossero appena le prime ore del pomeriggio.
Decine di macchine erano ferme davanti all’ingresso principale della villa. All’interno, l’antico edificio era gremito di uomini e donne che si aggiravano per le sale.
Appena varcata la soglia, Lou, Kaufman e Sutherland si fermarono sbalorditi davanti a quella folla.
— Ma è Margolin, dell’Accademia di Parigi — disse il dottor Kaufman. — Che cosa viene a fare qui?
— Liu, di Tokio — aggiunse Sutherland.
— Guarda! Rosenzweig… e anche Yossarian!
— Dio mio, ci sono tutti i pezzi grossi nel nostro campo!
Lou riconobbe alcuni dei genetisti e biochimici più famosi del mondo. Non vide, però, altri tecnici di elaboratori.
— Adrian! — disse un ometto fragile, con un ciuffo di capelli bianchi. — Lo sapevo che avrebbero preso anche te.
Kaufman si voltò e riconobbe subito il vecchio. Commosso, e insieme contento, gli andò incontro, tendendogli le mani: — Max… anche tu qui.
In quel momento Lou lo riconobbe: era il professor DeVreis, il decano dei genetisti viventi, l’uomo che era stato il maestro dei maggiori scienziati del ramo: di Kaufman, per esempio, quando era sui banchi dell’università.
Il dottor Sutherland si unì ai due, e in breve intorno a loro si riunì una piccola folla di personaggi dall’aria grave, perplessa. Lou, rimasto solo, rimase in piedi accanto all’entrata.
— Conoscete qualcuno di questi signori?
Lou alzò gli occhi e vide un individuo all’incirca della sua età, alto, allampanato, con la mascella sporgente, che si era fermato vicino a lui. Indossava una giacca sformata, un paio di pantaloni lunghi e quel genere di scarpe che si trovano esclusivamente nelle città dell’emisfero settentrionale. Osservandolo meglio, Lou si accorse che faceva uno sforzo violento per apparire tranquillo e non spaventato.
— Personalmente non ne conosco molti — rispose Lou. Poi fece il nome di diversi scienziati, indicandoli.
Il suo nuovo compagno scosse la testa, preoccupato: — Genetisti? Biochimici? Ma io, perché sono qui? Sono un fisico nucleare!
Parlava con un leggero accento che Lou non riuscì a identificare.
Adesso Lou si sentiva altrettanto perplesso. — Se può servirvi da consolazione, io sono un tecnico dei calcolatori. Mi chiamo Lou Christopher.
Con un largo sorriso, l’altro strinse la mano tesa da Lou.
— Anton Kori. Dell’Università di Praga.
— E io lavoro all’Istituto Watson, di Genetica… anzi, lavoravo.
— Americano?
Lou annuì. In quel momento si accorse che molti dei presenti avevano in mano bicchieri e salatini. — A quanto pare stanno servendo un rinfresco. Non avete fame?
Kori si strinse nelle spalle. — Adesso che me ne parlate…
Si scambiarono informazioni, passando per le sale affollate, finché scoprirono il tavolo del rinfresco.
— Da trent’anni non è più capitata una cosa del genere in Cecoslovacchia — disse Kori prendendo un panino. — Arrestati in piena notte e portati via dalla polizia… un po’ come nelle storie che raccontava mio nonno.
Di colpo si illuminò tutto. — Finalmente due che conosco!
Lou lo seguì, mentre l’altro si precipitava incontro a due uomini più anziani di lui, che parlavano e mangiavano tranquillamente, in piedi accanto alle porte-finestre. Uno dei due era un tipo grosso, calvo, con la pelle chiarissima, in calzoni corti e maglione. L’altro, a quanto pareva, era un indiano: scuro, magro, con occhi profondi, tipicamente orientale. Il completo grigio che indossava sottolineava l’aspetto esotico.
— Clark! Janda! — chiamò Kori, precipitandosi verso i due.
— Anton — disse il tipo più grosso. — Ma tu, che cosa fai qui? O meglio, che cosa ci stiamo a fare tutti? Lo sai? — L’accento era inequivocabilmente inglese.
Kori presentò Lou a Clark Frederick e a Ramash Jandawarlu, ingegneri missilistici.
— Ingegneri missilistici? — ripeté Lou. I due annuirono.
— Noi due lavoravamo assieme, quasi sempre per telefono — disse Frederick, — a un nuovo razzo a fusione.
— Per navi interstellari — disse Kori.
— Interstellari… del tipo delle sonde che sono state lanciate verso la metà del secolo? — Intanto Lou si sforzava di capire se il suo interlocutore si chiamava Clark Frederick o Frederick Clark.
— Sì, come le sonde, ma molto meglio — disse Jandawarlu con la sua voce sottile. — Si trattava di razzi propulsori destinati a navi con equipaggio a bordo, e non soltanto a piccole sonde cariche di strumenti.
— Navi con uomini a bordo, dirette alle stelle?
— Sì. Un progetto meraviglioso.
Clark protestò: — Parli come se per noi ormai tutto fosse finito.
L’indiano allargò le braccia. — Ci troviamo qui. Non credo che ci lasceranno riprendere il lavoro.
— Ma chi ci ha arrestati? — chiese Kori.
Lou disse: — Quelli del governo mondiale. Per motivi loro, hanno prelevato e portato qui tutti i maggiori genetisti e biochimici del mondo… oltre ad alcuni scienziati missilistici.
— Ma perché?
Come in risposta, da un altoparlante invisibile venne una voce: — Signore e signori, per cortesia vogliate riunirvi nel salone principale, dove avrà inizio la conferenza.
Per un secondo o due, la grande sala piombò nel silenzio assoluto, e tutti i presenti rimasero immobili. Non si sentiva, nell’intero palazzo, un solo rumore, a eccezione del brontolio sordo del tuono, in lontananza. Poi, tutti ripresero a parlare e a muoversi, nello stesso istante. Ci fu un momento di tremenda confusione quando un centinaio di uomini e donne defluirono nell’atrio d’ingresso, dirigendosi verso il salone principale della villa.
Non era difficile trovare il salone. Era situato in fondo all’atrio ed era un ambiente enorme, con drappeggi azzurri e oro. Alle pareti, c’erano tre candelabri scolpiti, e una mezza dozzina di specchi, che andavano dal pavimento al soffitto. Il pavimento era di legno lucidato a cera, per il ballo. Attualmente era occupato da file di sedie pieghevoli. L’estremità della sala era libera, a eccezione di uno schermo enorme, in quel momento oscurato, grande come quello di un teatro.
Quando tutti furono entrati, le porte si richiusero con uno scatto sordo.
Non si vede nessuno, ma sicuramente ci tengono d’occhio, pensò Lou, con un brivido.
Lou, con Kori, Frederick e Janda, prese posto in una delle ultime file. In prima fila c’erano Kaufman e Sutherland, vicino al professor DeVreis.
Il grande schermo si accese, diffondendo una luce fioca. Una voce disse: — Signori, vi parlerà sua eccellenza Vassily Kobryn, Ministro della Sicurezza.
Sul video comparve la faccia tozza e austera di Kobryn.
— Un russo — mormorò Kori.
— Signori — disse Kobryn, lentamente, — mi è stato affidato lo spiacevole incarico di spiegarvi perché siete stati strappati al vostro lavoro e alle vostre case e portati qui. Vi prego di credermi, ma il Consiglio dei Ministri ha studiato a lungo e a fondo la questione, prima di giungere a questa drastica decisione.
Le cose si mettono male, pensò Lou. Ci sta preparando a qualcosa di peggio di quanto ci è capitato fino adesso.