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Kaufman, per un momento, rimase in piedi, con la mano alzata, come se volesse ancora dire qualcosa. Poi, lentamente, come una bambola gonfiabile che si affloscia all’improvviso, crollò sulla sedia.

— Il Consiglio dei Ministri deplora con profondo rammarico questa azione drastica — disse Kobryn ai presenti, ammutoliti. — Voi, uomini e donne, siete i più grandi scienziati del mondo. Ma per assicurare stabilità e sicurezza ai miliardi di abitanti della Terra, è necessario che poche migliaia siano sacrificati. A bordo del satellite, benché alquanto affollato, vi abbiamo assicurato condizioni di vita buone e anche lussuose, nei limiti del possibile. Non intendiamo farvi alcun male. Abbiamo cercato un’altra soluzione del problema. Non ce n’è. Ed è assolutamente necessario che il vostro lavoro nel campo dell’ingegneria genetica non sconvolga l’umanità. Tentiamo di evitare un disastro. Spero che comprenderete.

— Brutto bugiardo — borbottò Kori.

Si alzò Frederick.

— Sono Clark Frederick. Non sono un genetista né un biochimico, ma un ingegnere missilistico. Ci sono qui anche alcuni miei colleghi. Siamo compresi anche noi, tra gli esuli? E in tal caso, perché?

Kobryn guardò da un’altra parte, verso qualcuno o qualcosa fuori dal campo della telecamera. Poi abbassò gli occhi, come per leggere rapidamente qualcosa.

— Ah, il dottor Frederick. Voi e alcuni ingegneri che lavoravano ai razzi interstellari siete compresi nella lista, mi spiace dirlo. È stato stabilito che anche il vostro lavoro rischiava di sconvolgere la stabilità sociale e… — Kobryn si strinse nelle spalle, come per dire: Il resto lo sapete.

La faccia di Frederick divenne rossa di rabbia. — Ma come diavolo è possibile che razzi diretti ad Alpha Centauri o alla Stella Barnard sconvolgano l’equilibrio sociale della Terra?

— Ve lo spiego subito — disse Kobryn. — Se le masse terrestri ritengono che esistano navi spaziali capaci di trasportare su nuovi mondi, su nuovi pianeti di altre stelle, succederà che milioni di persone tentino di raggiungere queste nuove frontiere. Come sapete meglio di me, soltanto un gruppetto sparuto ha la speranza di salpare a bordo di una nave spaziale. Ed è un mezzo troppo costoso per pensare a una vera colonizzazione.

— Certo. Questo lo sanno tutti — disse Frederick.

— No, non tutti. Le masse si aspetteranno sempre che le vostre navi spaziali le trasportino verso nuovi mondi, dove cominceranno una vita nuova, libere dalla Terra. E quando noi diremo loro che questo è impossibile, loro non crederanno alle nostre parole. Come risultato, avremo proteste, rivolte e tumulti. — Kobryn scosse la testa. — Non possiamo permettere che questo avvenga. Sono sinceramente addolorato.

Frederick si rimise a sedere.

— E poi — gli disse Kori, — spenderanno a proprio beneficio il denaro che serviva a noi.

Il professor DeVreis era di nuovo in piedi. — Ministro Kobryn, avete condannato all’esilio perpetuo migliaia di uomini, donne e bambini. Naturalmente, noi respingiamo in blocco questa decisione. Essa è assolutamente antitetica allo spirito del governo mondiale e della libertà umana. Chiediamo un dibattito libero e aperto, davanti al Consiglio dei Ministri, all’Assemblea e alla Corte Costituzionale Mondiale.

La faccia di Kobryn s’indurì. La sua figura gigantesca dominò, dagli schermi, la fragile persona del vecchio scienziato. — Non mi avete capito. La decisione è già stata presa. È definitiva. Senza appello. Domani sarete trasportati sulla stazione orbitale.

Il quadro si spense e gli astanti, sbigottiti, rimasero seduti, in silenzio.

X

Il giorno dopo, a metà del pomeriggio, una decina di uomini e le rispettive famiglie furono prelevati dalla villa da individui silenziosi, che indossavano una divisa anonima. I Kaufman e i Sutherland furono i primi a partire.

Prima i capi! Gli altri non faranno difficoltà, si disse Lou.

Lou si aggirava per la villa, senza scopo. Tutti sembravano in preda a shock. La gente si riuniva in gruppetti, in gran parte formati da familiari, e tutti parlavano a voce bassa, spaurita. Lou era solo, completamente isolato. Non aveva famiglia, neanche la sua ragazza.

Ripetutamente, un minibus lucido e nero risaliva il viale d’accesso e ne scendevano due uomini che entravano e percorrevano l’antica dimora finché trovavano la persona che cercavano. Pochi minuti di conversazione, e poi tutta la famiglia, attonita e sconvolta, seguiva gli uomini lungo il viale, si accalcava a bordo del minibus e partiva.

Lou, dal balcone che si affacciava sull’ingresso principale, stava a guardare uno degli autobus che percorreva il viale traballando, e svoltava nella strada, sollevando una nuvola di polvere. La sera prima c’era stato un acquazzone, ma la terra, nel pomeriggio, era di nuovo arida. Lou alzò gli occhi. Il cielo era luminoso, ma laggiù, sul mare, erano ricomparsi i nuvoloni neri.

Un minuscolo e agile turbocar percorreva la strada in direzione della villa, con la capote abbassata e due uomini sul sedile anteriore. Svoltò sollevando un grande polverone nel viale d’accesso e puntò verso l’ingresso. Seduto accanto al guidatore, c’era lo scandinavo. Alzò gli occhi al balcone e sorrise.

— Vedo che siete disposto a collaborare, dato che ci aspettate — si rivolse a Lou. — Vi dispiace venire con noi?

Suo malgrado, Lou si allarmò. Tocca a me.

— Signor Christopher — disse il nordico — non farete colpi di testa, spero.

Lou lo guardò, rabbioso. Senza una parola, rientrò e si diresse verso lo scalone che scendeva nell’atrio.

Il cielo ormai era carico di nuvole nere e la luce del tardo pomeriggio aveva preso un riflesso giallo elettrico, carico di minaccia, e nell’aria aleggiava l’odore umido del temporale imminente. Era fresco e eccitante stare sul sedile posteriore della macchina scoperta, con un vento teso e forte, che faceva svolazzare abiti e capelli e costringeva a chiudere gli occhi e a tenere strette le labbra, mentre l’auto filava rombando. Scesero a tutta velocità la polverosa strada costiera e s’immersero nella grande autostrada di plastacciaio. Per diversi chilometri, l’unico veicolo sulla strada fu la decapottabile, poi, a poco a poco, il traffico s’intensificò. Adesso Lou intravvedeva in lontananza, tra le colline, i grattacieli di una città, mentre pesanti autotreni li superavano fischiando, sui loro reattori a cuscino d’aria, filando verso la città.

Lou ormai sapeva che era inutile fare domande. D’altra parte, era quasi impossibile sostenere una conversazione dal sedile posteriore della macchina in corsa, anche ammettendo che gli altri due volessero o potessero rispondergli. Se ne rimase seduto tranquillamente, godendosi il vento e osservando i nuvoloni che velavano il sole, rendendo cupo e tenebroso il paesaggio circostante.

Guarda bene tutto, si disse. Forse è l’ultima volta che vedi queste cose.

Incontrarono un po’ di pioggia. La decapottabile s’infilò, sempre col tetto abbassato, in un labirinto di sopraelevate alla periferia della metropoli; poi, nel momento in cui i primi goccioloni cadevano sulle gambe nude di Lou, imboccò una galleria. Il tunnel, con ogni probabilità, era fornito di isolamento acustico, perché, sebbene l’auto non rallentasse, il rombo della turbina non riecheggiava con fragore assordante sotto la galleria, come sarebbe successo in un sottopassaggio normale. Entrarono in una rimessa sotterranea e si fermarono davanti a una porta, priva di indicazioni. Lo scandinavo scese e tenne lo sportello aperto per Lou. Appena i due ebbero messo piede a terra, il guidatore accelerò e partì immediatamente.

Lo scandinavo precedette Lou all’interno del palazzo, lungo un corridoio e successivamente fino a un ascensore che era in attesa, con le porte aperte. L’uomo non perdeva d’occhio Lou e, al momento di entrare nell’ascensore, si tenne leggermente discosto, in modo da essere fuori tiro. Dopodiché entrò a sua volta, posò il dito sull’ultimo pulsante del quadro di comando e le porte si chiusero.