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— Il Grande George — mormorò Lou. — È una bestia bravissima.

— Sì, è un bel gorilla robusto. — Bernard sembrava divertito. — Mi sembra che chiedesse di voi.

Lou annuì.

— Vi renderete conto, naturalmente — continuò Bernard protendendosi sulla scrivania, molto serio, — che il mio laboratorio è una faccenda privata, anzi segreta. Nessun altro ministro ne è a conoscenza. È situato su un’isola, e, una volta che vi sarete arrivato, non avrete più la possibilità di andarvene. Cioè, fino a quando l’intera questione dell’esilio non sarà sistemata.

— Ma perché tutto questo segreto? — chiese Lou. — Perché non informate il mondo intero dell’esilio degli scienziati? Perché tenete tutto nascosto? È proprio esattamente quello che vuole il governo?

— Mio caro e giovane amico, si tratta di una questione estremamente intricata, e la posta in gioco è altissima. Al minimo errore, perdiamo tutto. Dovete fidarvi di me. Al momento giusto, ve lo assicuro, il mondo saprà che cos’è successo.

— Va bene — disse Lou. — Penso che su questa faccenda ne sappiate molto più voi di me.

— D’accordo, allora! — Bernard era di nuovo raggiante. — Ora, vi occorre qualcosa per continuare il vostro lavoro? Abbiamo già smontato il vostro calcolatore e lo stiamo trasportando nel nuovo laboratorio.

Prima di rendersene conto, Lou disse: — C’è una programmatrice… si chiama Bonnie Sterne…

— Desiderate averla con voi, nel nostro laboratorio?

— Sì, ma non è tra gli esuli. È rimasta a Albuquerque. E forse non desidera venire…

Bernard scartò la sua obiezione. — Verrà. Conosco le donne un po’ meglio di voi. Se le diciamo che siete al sicuro e che volete averla con voi, lei verrà.

Lou al momento di lasciare lo studio di Bernard, aveva la testa come annebbiata. All’ascensore ritrovò lo scandinavo, che lo riaccompagnò alla macchina che aspettava fuori. Lou aveva l’impressione che il suo cervello girasse a vuoto. Erano capitate troppe cose. Troppe per assimilarle tutte.

Mentre sedeva sul sedile posteriore della macchina che correva sotto la pioggia sferzante, Lou tentava di convincersi di essere contento. Bernard, se non altro, stava dalla sua, dalla parte della ragione e della giustizia. Va bene, vivere su quell’isola sarà un po’ come un esilio. Ma per lo meno lavorerò, e ci sarà Bonnie con me. Che cosa posso desiderare di più?

Però c’era qualcosa che non andava. Lou si sentiva tutt’altro che soddisfatto, era vagamente a disagio, e diffidente. E allora si rese conto che non aveva la minima idea di dove lo stessero conducendo.

XI

Il nuovo laboratorio era situato su un’isola, non c’era dubbio. Un’isola del Pacifico, pensò Lou, vedendo il numero di orientali che si aggiravano sul posto. Buona parte del personale era costituito da cinesi o malesi. Una metà dei programmatori del calcolatore era giapponese.

Lou aveva raggiunto l’isola il giorno stesso in cui aveva avuto il colloquio con il Ministro Bernard. Non avevano perso tempo. Sull’aereo con lui c’era Anton Kori, e nessun altro. Buona parte del volo avvenne di notte, di modo che né Kori né Lou furono in grado di capire dov’erano diretti, a parte il fatto che al tramonto avevano puntato in direzione sud-est. L’equipaggio, due piloti arabi e un motorista nero, non aveva comunicato loro la rotta.

Lou e Kori, all’atterraggio, furono separati. Un cinese prelevò Lou all’aeroporto, a bordo di una turboauto aperta, avviandosi lungo una strada stretta e buia, che sembrava aperta nella giungla. Si fermò davanti a una costruzione prefabbricata in plastica e accompagnò Lou in una stanza a pianterreno. Non c’erano molti mobili, ma il letto era comodo, e Lou, prima ancora di essersi sfilato le scarpe, si era già addormentato.

Il mattino dopo, lo stesso cinese gli servì la colazione.

— Il direttore del laboratorio vi porge i suoi saluti — disse. — Vi prega di impiegare la mattinata come meglio credete. Avrà il piacere di conoscervi a pranzo. A mezzogiorno preciso.

Lou diede un’occhiata all’orologio.

— Mi sono preso la libertà di mettervelo a posto.

Guardandolo dritto negli occhi, Lou chiese: — Mentre dormivo?

Il cinese annuì e sulla faccia impassibile apparve l’ombra di un sorriso.

Lou impiegò la mattinata a gironzolare per l’isola. Era piccola, lunga appena sei chilometri, e larga meno di tre. In realtà, era formata da due alture, coperte da una fitta vegetazione, che spuntavano dal mare. C’erano palme e altre specie tropicali che Lou non conosceva.

Il sole era caldo, ma la brezza oceanica era molto gradevole. Insomma, un vero paradiso tropicale.

Tutto attorno all’isola si aprivano spiaggette bianche e più lontano, dove si frangeva l’oceano, la barriera corallina si stendeva all’intorno, a eccezione di una piccola baia, a un’estremità dell’isola. Lou scoprì un grosso battello a cuscino d’aria che si dondolava pigramente nella baia. In quel punto c’erano un molo e alcune palazzine bianche e basse. A poca distanza dagli edifici, era situata la spianata d’atterraggio dei jet, un quadrato erboso, ben tenuto. L’aereo era già ripartito. Non esisteva un’altra pista per reattori pesanti, e perciò potevano atterrare solo jet di tipo verticale.

Le abitazioni si trovavano esattamente dalla parte opposta dell’isola, ed erano collegate con la baia dall’unica strada, tagliata nella giungla. Al centro dell’isola, nella zona pianeggiante tra le due alture, si notavano gli edifici del laboratorio.

Le costruzioni si annidavano all’ombra di alberi giganteschi. In tutto, erano sei edifici pieni del brusio e dell’andirivieni frenetico degli uomini che sballavano pezzi enormi di attrezzature e lavoravano senza un attimo di sosta per montarli il più in fretta possibile. Le grida e il trambusto degli operai indussero Lou ad allontanarsi in fretta. Si fermò solo il tempo necessario per accertarsi che non rovinassero i pezzi che stavano maneggiando. Ma gli uomini non combinavano guai: sapevano quello che facevano.

Poi, mentre passava tra due palazzine del laboratorio, Lou sentì una voce rauca e aspra che chiamava: — Zio Lou!

Alzò gli occhi e vide il Grande George in piedi, con le enormi braccia alzate, in modo che le mani erano posate in cima alla barriera di rete metallica alta due metri e settanta, che li separava. Sotto il peso del gorilla, la rete s’incurvava paurosamente.

— Ehi, Georgy! — Lou, mentre correva verso il recinto, aveva ritrovato il sorriso di un tempo.

Il gorilla saltava su e giù battendosi i fianchi per l’eccitazione. — Zio Lou! Zio Lou!

— Stai bene, Georgy? — gli chiese Lou, quando raggiunse il recinto.

— Sì, sì. Gli sconosciuti mi hanno fatto paura, prima, poi sono stati molto gentili con me. Ma era triste, senza te e nessuno dei vecchi amici.

— Bene. Adesso sono di nuovo qui. Andrà tutto bene, Georgy. Vieni al cancello, che ti tiro fuori di qua dentro.

Il Grande George caracollò lungo la barriera, correndo a quattro zampe. Lou si accorse che il cancelletto non era chiuso a chiave, ma soltanto con un saliscendi, e immediatamente lo aprì.

George si precipitò fuori e prese Lou tra le sue braccia.

— Ehi! Piano! — disse Lou ridendo, mentre George lo sollevava da terra, con una forza che sarebbe bastata a schiacciarlo, e con una presa così delicata da poter maneggiare senza rischio della nitroglicerina.

Lou batté affettuosamente sulle spalle massicce e pelose del gorilla. Il calore e l’odore penetrante di quel corpo davano l’impressione di un’enorme forza della natura. E se il gorilla avesse potuto ridere, senza dubbio in quel momento lo avrebbe fatto.