Выбрать главу

Un colpo di pistola risuonò lì vicino. George, spaventato, sussultò e per poco non lasciò cadere Lou. Lou vide la paura affacciarsi negli occhi del gorilla, si voltò e scoprì una specie di guardiano in divisa, che teneva la pistola puntata contro di loro.

— Fermati! Metti giù quell’uomo — gridò la guardia tenendosi prudentemente alla larga. Portava una camicia cachi e un paio di calzoni corti; aveva un berretto in testa e una grossa pistola in pugno.

— Piantatela — scattò Lou. — E mettete via quella stupida arma. Noi due siamo vecchi amici.

La guardia rimase a bocca aperta.

— Mettimi giù — disse Lou al gorilla, piano. George lo posò a terra, con estremo riguardo.

Avvicinandosi al guardiano sbalordito, Lou disse: — Mettete via l’arma e non fatevi mai più sorprendere a fare del male al gorilla, e nemmeno a fargli paura. Avete capito bene?

— Ma, credevo…

— Credevate male. Il Grande George non farebbe del male a una mosca, a meno che non si spaventi al punto da farsi prendere dal panico.

— Ma stavo soltanto…

— Facevate male. E adesso, andatevene.

— Sissignore. — Il guardiano si allontanò, infilando l’arma nella fondina che gli pendeva sul fianco.

Lou rimase con il Grande George fino all’ora di pranzo, tenendosi però all’interno della rete metallica che circondava il recinto del gorilla. C’è troppa gente influenzata da cattivi film. E ci sono troppe armi in giro. Lou constatò che il recinto di George era molto vasto e intatto. George aveva a disposizione molto spazio, alberi ad alto fusto, un corso d’acqua e il pendio di una collina su cui arrampicarsi.

— È meglio che tu non esca — disse Lou, quando lasciò il gorilla al cancello. — Almeno finche non ti conosceranno meglio. Non voglio che ti metta nei guai.

— Lo so — gli sussurrò George. — Starò buono.

Lou affrettò il passo verso casa, sapendo che George avrebbe passato buona parte del pomeriggio a procurarsi cibo. Ci voleva una quantità enorme di frutta e di verdura per saziare un gorilla. Mentre si avvicinava agli edifici bianchi prefabbricati, Lou si sentiva sudato e a disagio. La brezza era caduta e adesso faceva molto caldo.

Il turbocar era fermo davanti agli alloggiamenti, e l’autista indossava la stessa divisa cachi del guardiano con la pistola.

Sul sedile posteriore, un uomo di mezza età stava leggendo alcuni giornali. Aveva una faccia mite e rosea, con la fronte altissima e capelli radi color sabbia, che cominciavano a diventare grigi. Era magro e leggermente miope, a giudicare da come teneva il giornale vicino al naso. Portava una camicia bianca inamidata con le maniche corte, e pantaloni lunghi.

Alzò gli occhi dal giornale, quando i sandali di Lou scricchiolarono sulla ghiaia del viale.

— Ah… il signor Christopher.

Sorrise mentre Lou saliva in macchina.

— Sono Donald Marcus, capo del laboratorio. — Tese la mano e Lou gliela strinse. Era molle, quasi viscida.

— Salite. Andiamo al laboratorio. Voglio che vediate il montaggio dell’elaboratore, prima di andare a pranzo.

Lou salì in macchina, sedendosi a fianco del nuovo capo.

— Tra l’altro — disse Marcus, mentre la macchina si metteva in moto, — sapevate di essere in ritardo di tre minuti?

Senza battere ciglio, Lou ribatté: — Probabilmente la mia guardia non mi ha rimesso a posto molto bene l’orologio.

Marcus sembrò un po’ sorpreso, ma non disse niente.

L’elaboratore era sistemato in un edificio a parte, di fianco al laboratorio, non lontano dal recinto del Grande Gorge.

Dentro l’edificio a un piano, regnava il caos. Alcuni operai estraevano grosse mensole dalle casse e toglievano gli involucri protettivi di plastica, lasciando tutt’attorno sul pavimento enormi pezzi di poliestere. I falegnami, da parte loro, stavano montando le pareti divisorie, tra lo stridere delle seghe e il sibilo dei trapani. Qualcuno picchiava su un muro. Tutti parlavano forte, chiamandosi da una parte all’altra, gridando ordini e risposte, per lo più con la cantilena cinese. Lou per poco non venne travolto da quattro uomini che a testa bassa e con la schiena curva trascinavano l’enorme quadro di controllo, facendolo passare quasi di corsa attraverso le grandi porte spalancate, in fondo alla sala.

Faceva caldo e umido, e nel locale regnava un odore di plastica nuova e di olio da macchina. Lou ormai era tutto sudato.

— La maggior parte di questi pezzi — gridò Marcus, superando il frastuono, — proviene dal vostro elaboratore che si trovava all’Istituto di Genetica.

Lou annuì, senza distogliere gli occhi dagli operai più vicini, che si davano da fare per stendere un grosso cavo attraverso il pavimento.

— Abbiamo trasportato qui i circuiti logici e l’intera memoria dell’elaboratore.

— E i circuiti vocali e il sistema di immissione dei dati? — gridò Lou.

Marcus abbassò la voce fino a un sussurro. — No, non abbiamo trasportato i circuiti voce e neanche le unità di entrata vocali. Dovrete battere direttamente i dati da immettere, e riceverete le risposte sullo schermo o stampate, come in una normale macchina.

— Come? E perche?

Marcus evito lo sguardo di Lou. — Non abbiamo avuto il tempo e nemmeno la possibilità di portare via tutto. E poi… — abbassò la voce al punto che Lou dovette chinarsi per sentire, — con tutti quei cinesi in giro, tra operai e tecnici, se sentono un elaboratore che parla, c’è il rischio che si spaventino e perdano la testa. Penserebbero che è il diavolo o qualcosa di soprannaturale.

Lou lo guardo in faccia. — Volete scherzare. Non c’è nessuno che…

Marcus lo fermo, alzando la mano. — No, dico sul serio. Beninteso, abbiamo tra i tecnici qualche tipo in gamba, ma il personale di servizio arriva direttamente dalla campagna, credetemi. Il mio autista, per esempio, che pure è un ottimo meccanico, porta al collo un sacchetto, con dentro polvere di ossa. Secondo lui, serve a tener lontani gli spiriti malvagi.

Al momento di uscire dal laboratorio e di risalire in macchina, Lou osservo attentamente l’autista. Effettivamente, l’uomo portava al collo una striscia di cuoio, a cui era appeso un sacchetto.

Pranzarono sulla veranda a casa di Marcus. L’edificio era costruito in pietra e legno, con un tetto di tegole rosse, che sporgeva di parecchio dal muro, in modo da creare una zona d’ombra quanto mai riposante contro il riverbero del sole. La casa era situata in cima a una collina che dominava la piccola baia azzurra, e la brezza dell’oceano rendeva piacevolissimo il soggiorno in veranda. Lou si appoggiò all’indietro sulla seggiola di vimini, osservando il vetro del suo bicchiere gelato che si appannava, e tendendo l’orecchio al canto degli uccelli tra i cespugli fioriti che circondavano la casa.

— Un mese fa — gli stava dicendo Marcus, — questa era l’unica casa dell’isola. Alla fine della settimana, ci saranno più di cento persone, tra cui venti scienziati, come voi.

— Non sono uno scienziato — disse Lou, — Sono un tecnico d’elaboratore.

Marcus sorrise appena. — Sì, lo so. Ma, per me, chiunque è addetto al problema della genetica è uno scienziato. Di professione, io sono ingegnere civile. Eppure in questo momento faccio, per così dire, il capo squadra.

Il giovane autista malese servì il pranzo su un tavolo rotondo di bambù, e ogni volta che si chinava per posare qualcosa sulla tavola il suo sacchetto magico penzolava fra Lou e Marcus.

— Secondo il piano del Ministro Bernard — disse Marcus, mentre mangiavano, — dobbiamo continuare il lavoro che era in corso nei laboratori di genetica più avanzati.

Lou scosse la testa. — Venti uomini non sono in grado di fare il lavoro di duemila. Soprattutto quando quei duemila erano i migliori nel loro campo.