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— E così, è finita… completamente finita. Nessuna via d’uscita. — Lou ricadde a sedere sulla sedia, accigliato.

— Temo di sì. È più di un anno, ormai, che vivo con questo problema, che cerco di trovare un’alternativa all’esilio. Non c’è. Mi dispiace. In un certo senso è un fallimento per noi. Fabbrichiamo splendide tecnologie, e poi siamo come tanti demoni. — Il Presidente scosse la testa. — Ho vergogna, per me, per il governo, per l’intera società. Stiamo commettendo un’ingiustizia tremenda.

— Ma continuate a commetterla — mormorò Lou.

— Sì! — scattò il Presidente. — E questa è la parte più tremenda. La detesto. Ma la compirò ugualmente. Lo so che non l’accetterete mai, né capirete mai. E mi dispiace.

Seguì un silenzio penoso.

Finalmente il Presidente disse: — Comunque, esaminerò personalmente la faccenda degli scienziati missilistici. Dottor Kori, non posso promettervi la libertà, ma vi prometto di tentare.

Kori annuì, sforzandosi di apparire grato, ma non troppo soddisfatto, mentre, con la coda dell’occhio, osservava Lou.

— Signorina Sterne — continuò il Presidente, — siete libera di andare dove vi pare. Il governo provvederà al viaggio ad Albuquerque o dove preferite. S’intende che sarete indennizzata per tutti i guai che avete avuto.

Bonnie disse: — Potrei andare sul satellite? In via temporanea?

Lou la guardò.

— Quasi tutti i miei amici sono lassù — disse Bonnie, guardando dritto il Presidente ed evitando gli occhi di Lou. — Forse preferirei vivere lassù piuttosto che altrove. Ma non posso dirlo con certezza, finché non avrò provato.

Il Presidente congiunse le mani sul petto magro e osservò pensosamente Bonnie. Dava l’impressione di sapere che nella richiesta di lei c’era molto di più di quanto avesse voluto dire.

— Ma gli altri, che cosa diranno, sapendo che voi potete fare ritorno sulla Terra quando volete?

Bonnie arrossì lievemente. — Mi fermerei… mi fermerei soltanto poche settimane. Poi prenderò una decisione definitiva.

— Poche settimane — ripeté il Presidente. — Poi prenderete una decisione irrevocabile, per il resto della vostra vita?

Lei annuì.

Un leggero sorriso illuminò la faccia rugosa del Presidente.

— Immagino la reazione di Kobryn. Procedura irregolare! Ma sì, restate pure qualche settimana a bordo del satellite. Non di più, però.

— Grazie! — disse Bonnie. Poi si voltò sorridendo verso Lou.

XX

Era letteralmente un altro mondo.

Lou non vide mai il satellite dall’esterno. Lui, Bonnie e Kori furono stipati su un razzo-spola, totalmente privo di oblò. Erano seduti in seggiolini di plastica stampata in mezzo a bidoni di benzina, casse di viveri, motori, pompe, arredi vari. Secondo Lou, attraverso il portello che li collegava a un secondo modulo cargo, si sentiva belare una pecora, o forse una capra.

Il satellite era enorme, una vera città orbitante. All’interno, c’era un ambiente strano, diverso dal solito. Per esempio, si aveva l’illusione ottica di andare sempre in salita. I corridoi, in entrambe le direzioni, s’incurvavano perché il satellite era costituito da una serie di ruote gigantesche, sistemate una dentro l’altra. I quartieri residenziali si trovavano nella ruota più grossa, all’esterno, dove la forza centrifuga era quasi pari alla gravita terrestre. Lou detestò immediatamente quel posto, e subito non lo poté soffrire.

La sua cabina (non era possibile chiamarla stanza) era una meraviglia di sfruttamento dello spazio, tutta rifinita in plastica e rivestita di alluminio spray. Ma per Lou era una specie di cella. Un astronauta si sarebbe sentito a suo agio, uno scienziato distaccato per un mese sul satellite ci avrebbe fatto l’abitudine, ma Lou pensava che avrebbe dovuto viverci il resto della sua vita.

La cella di Edmond Dantes era più spaziosa di questa.

In quel piccolo mondo di plastica, la vita si trasformò presto in una routine monotona. Lou, Kori e Bonnie, quando sbarcarono dal portello del razzo, furono ricevuti da un comitato d’onore. Poi furono accompagnati alle rispettive residenze. Dopo aver disfatto la sua unica valigia, Lou ricevette una telefonata della signora Kaufman, che fungeva da segretaria del marito e lo pregava di recarsi al Consiglio di direzione il mattino successivo, subito dopo colazione.

Il tempo, ovviamente, era del tutto arbitrario a bordo del satellite, dove l’ora era stata uniformata al Tempo Universale. Perciò, quando a Greenwich in Inghilterra era mezzanotte, era mezzanotte anche a bordo del satellite.

Lou impiegò la prima sera a girovagare per i corridoi in salita. Non riusciva a trovare Bonnie, non sapeva dove abitasse né quale fosse il suo numero di telefono. Lo stesso per Kori. Anziché chiedere a qualcuno, imboccò il corridoio principale, un ambiente totalmente anonimo, dalle pareti nude di plastica, interrotte soltanto da porte di plastica tutte uguali, fatta eccezione per i numeri stampati su ogni porta.

In giro per i corridoi c’era altra gente, in gran parte sconosciuti, tranne pochi uomini e donne con cui aveva lavorato all’Istituto. Riconoscendolo, gli altri lo salutavano con un cenno o gli dicevano buongiorno. Comunque, non era possibile capire se erano sorpresi nel vederlo o se si chiedevano perché non l’avevano mai visto prima. Sulle loro facce, Lou leggeva soltanto un vago senso di colpa, una sfumatura di vergogna per essere prigionieri lassù.

Sono come morti viventi, pensava Lou.

L’unico diversivo nel lungo corridoio anonimo e in salita, era la scaletta a chiocciola che, ogni dieci minuti, portava alla ruota successiva, più vicina all’asse del satellite. Dopo averne superate un certo numero, Lou decise di salire di sopra per vedere che cosa c’era.

La scaletta finiva in un altro corridoio dal pavimento curvo, identico al primo, tranne che era più piccolo, più stretto e con le porte soltanto su un lato. Il lato sinistro con tutta probabilità è la paratia esterna. Lou immaginava che, al secondo piano, la gravita fosse minore, ma in realtà non avvertì nessuna differenza. Era evidente che le dimensioni del satellite erano molto maggiori di quanto avesse pensato. Lou cominciava a rendersi conto di quanto dovesse essere grande quella stazione spaziale, per ospitare a bordo duemila scienziati con le loro famiglie.

Mentre gironzolava lungo il corridoio, arrivò in un settore scarsamente illuminato. Poche lampadine rosse rompevano l’oscurità, e si vedeva a stento dove mettere i piedi. Davanti a sé, Lou vide un’ombra immobile. Quando fu più vicino riconobbe l’uomo.

— Greg! Ehi, Greg!

Greg Belsen trasalì, poi si girò per vedere chi aveva chiamato.

— Greg! — disse Lou, sorridendo e posando una mano sulla spalla dell’amico, — come sono contento di vederti!

— Ciao, Lou — disse Greg, piano. — Ho sentito che ti hanno portato quassù, finalmente.

Il sorriso di Lou svanì. Non era più il Greg che aveva conosciuto all’Istituto. L’antica vitalità era scomparsa. Allora capì perché Greg era lì, in quel settore preciso del satellite. Sulla parete si apriva un oblò: un piccolo cerchio di plastiglass oscurato. Al di là dell’oblò, era sospesa la Terra. Ricca, azzurra, striata di nuvole bianche accecanti, straordinariamente vicina, viva. Girava attorno in un cerchio lento, riflesso del movimento di rotazione del satellite.

— È solo a poche centinaia di chilometri — disse Greg con una strana voce incolore che Lou non gli aveva mai sentito prima. — Meno della distanza tra Albuquerque e Los Angeles. Se ti butti da uno dei portelli, praticamente in un salto sei dritto a casa.

Lou si sentì gelare.

Ritrovò Bonnie e Kori l’indomani mattina, dopo poche ore di sonno agitato, pieno di sogni. Arrivarono assieme alla tavola calda automatica e si ritrovarono tutti e tre, davanti al menu che era poi un pannello irto di pulsanti selettori. In quel momento, erano accesi solo i pulsanti della colazione. Il locale era in grado di accogliere una cinquantina di persone intorno ai suoi tavoli lunghi e stretti. A quell’ora era quasi deserto.