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— Per favore, venite con noi — disse il nordico. Com’era prevedibile, aveva l’accento molle degli scandinavi. — Ho il dovere di informarvi che siamo entrambi armati e che ogni tentativo di fuga è impossibile.

— Fuga da che cosa? — Lou si sentiva riprendere dall’esasperazione.

— Vi prego — disse il portoricano, piano. — Sta facendosi buio. Non possiamo rimanere fuori più a lungo. Da questa parte, prego.

Se non altro, sono abbastanza educati…

L’edificio dell’ONU, all’interno, appariva in condizioni migliori. Il corridoio lungo cui si avviarono era pulito. Il tappeto, però, era logoro e scolorito, dopo un secolo di servizio. Salirono su un grande ascensore, con le pareti rivestite di legno ridotto in cattive condizioni, e salirono una decina di piani. Imboccarono un altro corridoio e finalmente entrarono in una stanzetta.

— Dottor Kirby!

Seduto sul sofà, al lato opposto della stanza, c’era il dottor John Kirby, della Columbia-Brookhaven University. Era un uomo sui cinquantacinque anni, con i capelli bianchi, la faccia asciutta, nervosa e sottile, e un naso adunco che gli aveva procurato il soprannome di Falco.

— Mi spiace — disse Kirby. — Non mi sembra di ricordare.

— Louis Christopher — disse Lou, mentre i due chiudevano la porta, lasciandolo solo con il dottor Kirby. — Ci siamo visti la primavera scorsa, al congresso del Colorado, ricordate?

Kirby fece un gesto vago con la mano. — C’è sempre tanta gente, ai congressi.

Lou si sedette accanto a lui, sul divano.— Avevo presentato una relazione sui risultati di una ricerca computerizzata in previsione di modificazioni genetiche. Dalla sala, mi avete rivolto una domanda sull’accuratezza dei dati. Più tardi, siamo andati a pranzo assieme.

— Ah, sì. L’esperto dell’elaboratore. Non siete un genetista.

Non sembrava, dall’espressione, che Kirby avesse riconosciuto Lou.

— Avete un’idea di che cosa stia succedendo? — chiese Lou.

Kirby scosse la testa. Sembrava intontito, indifferente a tutto. Lou si guardò attorno. La stanza era abbastanza confortevole, c’erano un sofà, due seggiole comode, una libreria piena di bobine e, alla parete, uno schermo. Niente finestre, però.

Lou si alzò, si avvicinò alla porta. Era chiusa.

Si accorse, voltandosi verso Kirby, che si teneva la faccia tra le mani. L’avevano drogato, per caso?

— State bene? — chiese Lou.

— Come? Ah, sì… sto bene. Soltanto che… ecco, francamente, ho paura.

— Di che cosa?

Kirby rifece il gesto vago di prima. — Non… non lo so. Non so perché siamo qui e neppure che cosa vogliono fare di noi. È questo che mi spaventa. Non mi hanno permesso di chiamare mia moglie e neanche di parlare con un avvocato.

Lou attraversò la stanza. — Sono stato fermato all’Istituto. Non ho potuto parlare con nessuno, neanch’io. Nessuno sa che sono qui. — Ritornò vicino alla porta. — Ma perché fanno così? Che cosa abbiamo fatto? Di che cosa si tratta?

Improvvisamente la porta si aprì. Nel corridoio c’erano i due uomini di prima. — Venite con noi, prego.

Kirby cominciò a alzarsi, Lou invece disse: — No, non vengo se non ci dite di che si tratta. Non potete arrestarci e portarci via in questo modo. Voglio parlare a…

Lo scandinavo estrasse da sotto la giubba una pistola ad ago. L’arma era talmente piccola che stava tutta nella mano, fatta eccezione per la canna filiforme. Comunque, a Lou sembrava che la bocca fosse come quella di un cannone, dato che l’arma era puntata contro di lui.

— Prego, signor Christopher. Non abbiamo intenzione di servirci della forza. Formalmente non siete in arresto, e di conseguenza non avete bisogno di ricorrere a un avvocato. Comunque, siete atteso per rispondere ad alcune domande alla sede del governo, a Messina. Sarà meglio per voi, se collaborate.

— A Messina? In Sicilia? Il biondo annuì.

— Ma la mia famiglia… — disse Kirby, scosso.

— È stata informata — disse il portoricano. — Non vi capiterà niente, se collaborate.

Lou, stringendosi nelle spalle, si avviò verso il corridoio. Il nordico ripose l’arma sotto la giubba. I quattro si diressero lentamente verso l’ascensore, mentre i loro passi risuonavano sul pavimento di plastica. Una volta arrivati davanti all’ascensore, il portoricano premette il pulsante DISCESA e le porte si aprirono all’istante.

Il palazzo è deserto, a eccezione di noi!, pensò Lou.

Salì in ascensore, poi si girò di scatto, afferrò il portoricano e lo scaraventò addosso allo scandinavo. I due, gridando, finirono a terra in un groviglio di braccia e di gambe. Lou premette il pulsante CHIUSURA gridando a Kirby: — Salite!

Kirby, mentre le porte si richiudevano, rimase immobile, a bocca aperta. Lo scandinavo era ancora a terra, ma si era liberato dal portoricano e cercava di estrarre l’arma. Le porte si chiusero. Lou premette il pulsante P. TERRENO e l’ascensore iniziò la discesa. Al piano di sopra, stavano picchiando contro le porte metalliche.

Arrivato in fondo, Lou tentò di ritrovare il corridoio che portava allo spiazzo d’atterraggio. Si smarrì nell’intrico di anditi, poi finalmente avvistò la scritta USCITA e si precipitò fuori. All’esterno, era notte fonda, buia e umida, e il tanfo greve e penetrante del fiume inquinato diede una scossa violenta ai sensi di Lou. La metropoli era quasi interamente immersa nell’oscurità; s’intravedevano soltanto poche luci sparse, la maggior parte in cima ai grattacieli, dove gli abitanti avevano il generatore di corrente e dove si barricavano per la notte.

Lou sentì un rumore di passi e si appiattì nell’ombra fitta, lungo la parete.

— Accendiamo le luci? — Era la voce del nordico.

— Per attirarci addosso tutte le bande di malviventi dell’East Side? — disse il portoricano. — Tu non conosci ancora bene questa città. Non ce la farà a passare la notte da solo. Se non torna tra un’ora a bussare alle nostre porte, vuol dire che l’hanno fatto fuori. È impossibile portare in salvo la pelle, da soli, per queste strade.

— Ho l’ordine di portarlo a Messina incolume — disse lo scandinavo.

— Vuoi metterti a cercarlo laggiù? Faranno la pelle anche a te.

Non dissero altro. Lou intuiva che lo scandinavo era poco convinto, ma che non intendeva rischiare la vita nelle strade della città. Sentì lo scatto della porta che si chiudeva. Allora scivolò guardingo lungo il muro finché trovò la porta da cui era uscito.

Era chiusa dall’interno.

Si voltò e guardò le luci, con animo diverso. Era solo, nella città.

E la notte era appena iniziata.

IV

Lou si accoccolò sui talloni, appoggiandosi alla parete scabra, e si sforzò di riflettere. Poteva bussare alla porta finché non gli venissero ad aprire. In tal caso sarebbe stato abbastanza al sicuro. Lo scandinavo, al massimo, gli avrebbe somministrato un sonnifero, ma niente di peggio. Dopo di che, lo avrebbero portato a Messina. Ma perché? E dov’era Bonnie? Avevano preso anche lei?

Perché doveva lasciarsi prendere in giro a quel modo, si chiese Lou, sempre più inferocito. Non avevano nessun diritto di fermarlo. Con chi credevano di avere a che fare, con un fragile, vecchio professore come Kirby?

E ora si trovava lì, nella metropoli, da solo! A Lou vennero in mente i tempi in cui era studente, nel Maryland, quando il modo migliore per dimostrare che si aveva del fegato era di andare di nascosto in città di notte. Ci si andava, s’intende, con gli amici, e mai in meno di dodici. Adesso che ci ripensava, Lou si rendeva conto che, nonostante tutte le loro vanterie, non si erano mai spinti al di là di pochi isolati, alla periferia di Baltimora. E poi via, con tutta la velocità consentita dalle loro auto, verso le colline amiche di Hagertown. Eppure, proprio in una di quelle spedizioni, John Milford ci aveva lasciato la pelle. Lou si ricordava perfettamente quando aveva inciampato nel corpo mutilato del compagno, mentre correva verso la sua macchina quella notte. A ripensarci, gli venivano ancora i brividi.