— Ehi, fermatelo, non deve attraversare la strada!
Lou guardò davanti a sé. A qualche isolato di distanza, si vedevano delle luci. Si trattava forse di una delle grandi arterie cittadine, ancora illuminate? Le luci volevano dire civiltà, e civiltà equivaleva a salvezza. Lou si lanciò di corsa in direzione delle luci.
— Eccolo! Prendetelo!
Lo scalpiccio alle sue spalle si avvicinava. Dietro un angolo spuntarono due ragazzi, con i coltelli in pugno. Lou svoltò di scatto verso il centro della via. Quando i due scattarono per tagliargli la strada, lui si ributtò all’indietro, nel suo miglior stile di giocatore di calcio. Uno dei ragazzi, nel tentativo di raggiungerlo, scivolò e Lou sferrò all’altro un calcio così violento che il ragazzo rimbalzò fino a metà strada.
Le luci, le luci. Doveva assolutamente raggiungere le luci. Erano lì, dietro di lui. Un coltello gli fischiò vicino alle orecchie e rotolò sul selciato irregolare. Lou aveva i polmoni in fiamme e il cuore gli pulsava nelle orecchie con un rombo assordante. Qualcosa lo afferrò alla vita. Prendendo lo slancio, Lou menò un manrovescio brutale. Un fiotto di sangue zampillò dal naso del ragazzino, di non più di otto o nove anni, quando la testa, dopo la sberla di Lou, ritornò nella posizione normale. Il bambino appariva spaventato, arrabbiato e sorpreso. Lou lo afferrò per i capelli e lo staccò da sé, poi lo scaraventò addosso a un altro ragazzo che stava sopraggiungendo; infine si lanciò nell’arteria illuminata.
— Alt! — urlò il capo. — Fermati. Non passare quella linea.
Lou si fermò in mezzo alla strada, ansando penosamente, con le orecchie assordate dal battito violento del cuore e le gambe che gli tremavano per lo sforzo. I ragazzi della banda si ammassarono sul marciapiede.
— Bella corsa, burattino — disse il capo. — Ti è andata bene. — A questo punto, alzò la mano.
Lou vide il coltello, vide il capo lanciarglielo addosso con uno scatto fulmineo, vide la lama volare nella sua direzione. Fece un salto all’indietro, verso l’estremità opposta della strada. Il coltello si conficcò nella carreggiata nera e rimase là, vibrando. In quel momento gli altri ragazzi misero mano lentamente ai coltelli, preparandosi a lanciarli.
Lou, inciampando, reso quasi insensibile dallo sforzo, arretrò, si voltò e finalmente raggiunse, barcollando, l’altro lato della strada. Evitando le luci, si rintanò nell’ombra di una porta. I ragazzi si fermarono sul marciapiedi opposto, ridendo e aspettando, come se dovesse succedere qualcosa.
Un paio di mani afferrarono Lou per le braccia. — Che cosa vuoi, faccia rosa?
Lou non avrebbe mai creduto di perdere i sensi, invece in quel momento svenne.
V
Quando si riebbe era steso sul pavimento di una stanza. Un’unica lampadina brillava in alto, sul soffitto. Intorno, in piedi, c’era una mezza dozzina di ragazzi. Ragazzi neri. Un’altra banda.
Lou, lentamente, si alzò a sedere. Ogni centimetro del corpo gli doleva orribilmente.
L’unico mobile del locale era un vecchio tavolino di scuola con relativa seggiola, tutto tagliuzzato e con centinaia di iniziali incise sopra. Dietro il tavolino c’era un vecchio manifesto, che rappresentava un leone enorme nell’atto di balzare attraverso un cerchio di fuoco. La parte alta del manifesto era strappata. Lou riuscì a decifrare: …OR MANIFESTAZIONE DEL MONDO, DAL 15 AL 29 APRILE. Quelle parole non gli dicevano niente.
Finalmente la sua attenzione fu attratta dall’uomo seduto dietro il tavolino. Era enorme: l’uomo più grosso che Lou avesse mai visto. Doveva pesare centocinquanta chili, se non di più. Non era grasso, però: era semplicemente enorme, con muscoli giganteschi, su una struttura ossea immensa.
Appariva del tutto sproporzionato, rispetto al tavolino dietro al quale era seduto. L’unico indumento che Lou riusciva a vedere era il gilè aperto. La pelle nera luccicava al riflesso della lampadina.
Non era facile dire che età avesse; forse poco più di vent’anni, forse dieci di più.
Stava parlando con uno dei ragazzi, ignorando lo sguardo sorpreso di Lou.
— … l’unico modo è di riconsegnarlo. Altrimenti la pace tra noi e i Piedipiatti se ne va all’aria.
— Ma è nostro — rispose l’altro ragazzo, rabbioso. — Loro l’hanno perso e noi ce lo siamo preso. E così è nostro, non ti pare?
I ragazzi borbottarono, in segno di approvazione.
— E volete che i Piedipiatti vengano a riprenderselo? Siete disposti a combattere contro l’intera banda? Stanotte? E poi, non ha niente su di sé, non vale proprio la pena che ce lo teniamo.
Lou capì che stavano parlando di lui — Ehi, un momento!
— Chiudi il becco, faccia rosa! — La punta di una scarpa colpì la sua schiena indolenzita. Lou sussultò e tenne la bocca chiusa.
— Un momento — disse il gigante, dando un’occhiata a Lou. — Lo sai dove sei, bianco?
Lou scosse la testa.
Sorridendo da dietro il tavolo, il nero aggiunse: — Sei nel quartier generale segreto dei Gatti Selvaggi. Chiamami pure Felix per brevità. — Felix parlava adagio, con molta precisione, in un inglese puntiglioso, per farsi capire da Lou, come un maestro che si rivolge a un allievo un po’ zuccone.
— Evidentemente — proseguì — sei finito nel nostro territorio quando i Piedipiatti ti davano la caccia, poco fa. Stiamo discutendo se è il caso di restituirti ai Piedipiatti o se dobbiamo pensarci noi a sistemarti.
— Sistemarmi?
— Farti fuori — spiegò un ragazzo alto, allampanato. Felix scosse la testa e si afferrò con le grosse mani ai lati del tavolino. — Zonk, perché non tieni la bocca chiusa? — disse al ragazzo che aveva parlato poco prima. E, rivolgendosi a Lou: — Non puoi rimanere qui. Non puoi unirti alla nostra banda, per ovvi motivi. Se ti lasciamo andare, i Piedipiatti la considereranno un’offesa, e c’è il rischio che scendano in guerra contro di noi.
— Luride pelli bianche — borbottò Zonk.
— I miei amici non vogliono ammetterlo — disse Felix, alzando leggermente la voce, — ma non siamo in grado di fare guerra ai Piedipiatti. Sono molto più numerosi di noi e possono contare su una mezza dozzina di altre bande, come alleate.
— E noi abbiamo tutta la città alta con noi! — gridò Zonk.
— Già, vuoi che l’intera città diventi un campo di battaglia? — ribatté Felix — Basta con questa storia, stupido che non sei altro. Bisogna trovare qualcosa di meglio, finché non saremo abbastanza forti da tenere testa ai Piedipiatti.
— Sentite — disse Lou. — Io voglio soltanto arrivare all’aeroporto, prima che sia circondato dalla polizia.
— La polizia? — scattò Zonk. — Le teste di ferro? Li hai alle calcagna?
— Non le brigate locali, uno sceriffo federale… quelli del governo mondiale.
Lo fissarono tutti senza capire: non avevano la minima idea di che cosa stesse dicendo.
A eccezione di Felix. — E perché li hai alle calcagna?
Lou si strinse nelle spalle. — Non me l’hanno detto.
Zonk scoppio in una risata. — E quando mai le teste di ferro ti dicono perché ti sfondano il cranio? Te lo sfondano e buonanotte! E tu ti trovi all’ospedale, ammesso che ci arrivi!
— Se non raggiungo l’aeroporto prima dell’alba, probabilmente li troverò là ad aspettarmi — disse Lou.
Felix tornò a scuotere la testa. — Non andrai al JFK né prima né dopo l’alba. Non possiamo lasciarti libero, altrimenti i Piedipiatti se la prenderanno con noi.
— Sei una pecora! — gridò Zonk. — Un pulcino bagnato, che ha paura di quei dannati Piedipiatti!
La faccia di Felix s’irrigidì paurosamente. Gli occhi divennero una fessura, come quelli dei gatti. Si alzò dalla sedia, lentamente, pesantemente, e uscì da dietro il tavolino piantandosi sulle gambe grosse come tronchi d’albero. Zonk guardò i compagni in giro, poi fece un passo indietro.