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— Siamo stati amici — disse Felix, avanzando come un maroso, riempiendo tutta la stanza. Parlava a voce bassa, minacciosa. — Per questo motivo ti do la possibilità di ritirare quella parola. Subito!

— Mi… mi… mi spiace — balbettò Zonk. — Avevo perso la testa.

— Sono una pecora? — Felix incombeva sul ragazzo tutto ossa, che era appena a un centimetro da lui. Sembrava che stesse per schiacciare Zonk.

— No, non sei una pecora.

— Ho paura di qualcosa o di qualcuno sulla Terra?

— No. Di niente e di nessuno.

Prima ancora di rendersi conto di quello che diceva, Lou disse: — Perciò non hai neanche paura di portarmi al JFK.

Tutti si irrigidirono. La stanza piombò in un silenzio assoluto. Si sarebbe detto che nessuno osasse respirare, e meno di tutti Lou. Era ancora seduto sul pavimento, circondato dai ragazzi che lo guardavano a bocca aperta. Felix era rimasto voltato a metà verso l’impietrito Zonk.

Lentamente, molto lentamente, Felix si girò verso Lou. Le tavole sudicie del pavimento scricchiolarono sotto il suo peso. Felix aveva la faccia inespressiva e dura come il leone del manifesto.

— Come hai detto?

Sono morto comunque, pensò Lou. Poi disse forte: — Se non hai paura di niente e di nessuno, non avrai paura di aiutarmi a raggiungere l’aeroporto. Stanotte. Adesso.

Felix, per un minuto abbondante, fissò Lou, cupo, senza battere ciglio. Poi lentamente aprì la bocca e scoppiò a ridere. Il sogghigno si trasformò in una risata profonda, fragorosa, che faceva tremare la stanza. Anche i ragazzi si misero a ridere.

— Sei un bel tipo, uomo bianco, davvero un bel tipo, a parlarmi così. — Felix, ridendo sgangheratamente, tornò vicino al tavolo. — Hai del fegato. Non molto cervello, forse, ma del fegato sì. — Si lasciò cadere sulla seggiola con tale violenza che Lou temette di vederla andare in pezzi.

Felix scosse la testa, sempre ridendo. — E così, tu mi sfidi a darti una mano. Che colpo, questo, che colpo magnifico!

Lou si alzò in piedi. — E va bene, visto che fa tanto ridere. O mi aiuti, o mi ammazzi, o mi lasci libero. Scegli.

Felix, con un gesto della mano, disse: — Devi avere un po’ di sangue nero nelle vene, tu. Hai del fegato, e va bene. Ma adesso ascoltami: se ti lascio andare, ti fanno fuori prima dell’alba, lo sai? Se ti do una mano, scateno una guerra. Ma… zitto bamboccio, non sarà facile farti la pelle, se hai avuto il fegato di sfidarmi.

Si voltò verso Zonk. — Va’ a prendere la macchina.

— Vuoi…

— Il tipo vuol dare un’occhiata al JFK — disse Felix. — Da anni non l’ho più rivisto neanch’io. E tu ci sei mai stato?

Zonk, con gli occhi sbarrati, scosse la testa.

— Sei pronto a fare la guerra, al nostro ritorno?

Zonk annuì. Gli altri fecero altrettanto.

— Bene, va’ a prendere la macchina allora. Al ritorno, ci fermeremo alla città alta, a cercare rinforzi. Faremo vedere ai Piedipiatti che sarà bene che ci pensino due volte, prima di scatenare una guerra.

— Questo si chiama parlare — disse Zonk, andando verso la porta.

La macchina era una due porte decrepita, coperta di ruggine, scrostata, con i sedili sfondati, il cambio automatico da tempo fuori uso, le luci guaste e senza radio. Comunque, funzionava. Tra sussulti, rantoli e gemiti, funzionava.

Filarono sferragliando lungo la superstrada, con l’aria che fischiava dai finestrini difettosi. Zonk era raggomitolato sul sedile posteriore, semiaddormentato. Anche Lou aveva voglia di dormire. Dalla punta del cranio ai piedi scalzi, era tutto pesto e indolenzito. Gli faceva male il piede che si era ferito senza neppure accorgersene. Comunque, non riusciva a dormire. Dentro, era teso come in un urlo di terrore.

Una volta superato il ponte, la superstrada correva sopraelevata. Di fronte, l’orizzonte si tingeva di grigio. In quel quartiere, gli edifici erano più bassi e meno ammucchiati che a Manhattan.

Felix era quasi schiacciato dietro il volante. Rise sottovoce. — Certa gente nasce proprio con la camicia. Tu hai del fegato, non c’è dubbio, ma soprattutto hai una fortuna sfacciata.

Lou lo guardò. Nella luce scialba e fredda delle prime ore del mattino, Felix sembrava diverso.

— Ma non hai ancora capito? — gli chiese Felix.

— Non so…

Il nero si girò faticosamente sul sedile troppo stretto per un gigante come lui e diede un’occhiata a Zonk, che dormiva profondamente.

Poi disse a Lou: — Credi che siano bastate le tue parole per salvare la pelle dalla furia di un branco di decenni? Lo credi davvero? — E scoppiò a ridere.

VI

Lou osservò attentamente Felix, che si limitò a ridacchiare tra sé, senza aggiungere altro. In quel momento, nel chiarore dell’alba si profilarono le strutture del JFK. Felix uscì dalla superstrada, e infilò una via d’accesso all’aeroporto.

— Dove vai? — chiese Lou.

— Dobbiamo farci belli per superare i cancelli dell’aeroporto.

Si infilarono nel posteggio di un centro vendite, aperto tutta la notte. Felix svegliò Zonk, e tutt’e tre si avviarono verso l’ingresso riservato ai clienti. Lou aveva il piede che gli faceva molto male.

Le porte d’accesso erano chiuse, ma su un lato c’era l’apertura di sicurezza. Lou disse forte, al ricevitore, il numero della propria carta di credito e si fece fotografare.

— Questo numero di credito è di Albuquerque nel Nuovo Messico — annunciò l’elaboratore del centro, impassibile. — Ci vorrà qualche minuto per il controllo.

Felix disse: — Aspetteremo.

— Se la polizia mi sta realmente cercando — disse forte Lou, preoccupato, — adesso hanno in mano la mia carta di credito e la fotografia e…

— Spiacente di avervi fatto attendere — disse l’elaboratore, senza ombra di rammarico. — Il controllo è finito. Entrate pure e acquistate quello che volete entro un limite di diecimila dollari.

Felix era raggiante. — Proprio quello che ho sempre cercato: un amico con un buon credito.

I viali e i negozi del centro vendite erano deserti. Felix spedì Zonk in un negozio di abbigliamento maschile, e, tenendo Lou per un braccio, si diresse verso una farmacia.

— Stai zoppicando. Il piede ha bisogno di cure.

— Poco fa, sulla macchina — disse Lou mentre entravano nel locale, — che cosa intendevi dire quando parlavi della mia fortuna?

Felix scoppiò a ridere. — Ah, sì. Be’, sei un uomo fortunato, ma non per quello che immagini tu. Non ti sei mai chiesto perché alla testa dei Gatti Selvaggi c’è un uomo della mia età? Ho più di trent’anni, sai?

— Ma di cosa stai partendo?

— Siediti qui — disse Felix, — mentre vado a cercarti qualcosa per il piede.

Lou si mise a sedere in una sedia di plastica, di fronte a uno scaffale che prendeva tutta la parete, pieno di articoli farmaceutici. Felix passò lentamente in rassegna lo scaffale, trovò quello che cercava in una delle vetrine e premette i pulsanti che spedivano i prodotti nel contenitore apposito. Dopo di che ritornò da Lou, carico di antibiotici e di bendaggi plastici spray.

— Ascolta — disse mentre spruzzava con un disinfettante il piede di Lou incrostato di sangue. — Io sono un insegnante. Lavoro per il Centro Riabilitazione. Cerco di far entrare un po’ di buon senso nelle teste di questi ragazzi. L’unico modo per riuscirci è di unirsi a loro, di guidarli, di cercare di portarli, piano piano, dove si vuole. È più di un anno che sono qui, nella città. Sono riuscito a stabilire collegamenti tra un territorio e l’altro. Mi sforzo di farli pensare a qualcosa che non sia solo sesso e guerra. Ci vorranno altri dieci o dodici anni, prima che si comportino da esseri civili, al livello dell’età della pietra.