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— E loro non sanno…

Felix scoppiò a ridere. — Davvero, amico, se lo sapessero a quest’ora avrei già fatto la fine che per poco non hai fatto tu! — Si accigliò. — Alcuni miei colleghi sono stati scoperti. Non è piacevole pensare a che cosa gli è capitato.

— E perché lo fai?

Felix si strinse nelle spalle. — E chi lo sa? Ma non possiamo lasciare quei ragazzi abbandonati a se stessi. Troppe generazioni se ne sono lavate le mani, in passato. E ogni anno è stato sempre peggio, sempre peggio, finché siamo arrivati a questo punto. Qualcuno deve pure dargli una mano. In un certo senso, siamo in debito con loro. Non sono diventati selvaggi da soli. Sono stati spinti. E se qualcuno non interviene e spingerli nella direzione opposta, andranno avanti così, ammazzando e morendo.

Lou disse: — Ci vorranno cento anni prima che ragazzi come quelli si rinciviliscano.

— E noi ci daremo da fare per cento anni — rispose Felix, con veemenza. — C’è voluto più di un secolo perché le metropoli finissero in questo stato. E vale la pena di impiegare un secolo per rimetterle in piedi. Perché, se non interveniamo noi e se lasciamo che quei ragazzi continuino a riprodursi e a degenerare come negli ultimi cento anni, tra non molto traboccheranno dalle città, travolgendo ogni cosa. Le orde mongole ci sembreranno una sciocchezza, in confronto a quello che combineranno questi ragazzi.

Lou rabbrividì.

— E c’è qualcosa di più — continuò Felix. — Questi ragazzi hanno diritto a un po’ di felicità. Non hanno chiesto loro di nascere in questa giungla. Non hanno mai avuto niente di meglio. E non conosceranno mai niente di meglio, a meno che qualcuno di noi tagli i ponti con la nostra società e cerchi di aiutarli. Questi ragazzi rappresentano l’avvenire. Che senso ha tutta la nostra civiltà, così grande e così potente, se perdiamo questi ragazzi? A che servono tutta la tecnologia e la scienza, se nelle viscere delle metropoli alleviamo dei cavernicoli? Se non diamo una mano a questi ragazzi perché il loro avvenire sia migliore, non ci resta molto da sperare, te lo assicuro.

— Dovresti essere membro del Congresso o fare il prete — disse Lou.

Felix scoppiò a ridere.

— E tutte quelle minacce di farmi la pelle!

— Oh, era tutto vero — disse. — Stavo cercando come tirare fuori di là la tua pelle bianca. Ma non riuscivo a trovare il modo. O lasciavo che ti portassero fuori…

— E li avresti lasciati fare?

Un’altra scrollata di spalle. — Non mi veniva in mente niente di utile, finché non ti sei messo a fare la voce grossa. Mi hai dato il pretesto che stavo cercando.

— Allora, grazie.

— Non è il caso di parlarne — rispose Felix, con un sorriso.

Lou, nel giro di mezz’ora, camminava senza quasi più zoppicare. Fece una doccia, si rase e si infilò un completo estivo e un paio di mocassini che prelevò nel settore abbigliamento. Anche Felix e Zonk si erano rimessi a nuovo. Felix aveva scelto un completo importante con mantello e stivali. Zonk, da parte sua, prediligeva i colori elettrici e gli abiti all’ultima moda, attillatissimi.

— Sei quasi presentabile — disse Felix a Lou. — Hai ancora la bocca gonfia e ti sta venendo un livido intorno all’occhio. Comunque, andrà tutto bene.

Felix superò i cancelli dell’aeroporto nel momento preciso in cui il sole spuntava dietro l’orizzonte lontano. Le due guardie di servizio ai cancelli, con gli elmetti bianchi, guardarono incuriositi la vecchia auto scassata, ma la lasciarono passare. I tre affrontarono la grande rampa dell’aerostazione, un tempo imponente, mentre Felix, per evitare le buche, era costretto a guidare con estrema attenzione.

Bloccò davanti al terminal per far scendere Lou, che una volta a terra infilò la testa nel finestrino e posò la mano sulla enorme zampa di Felix.

— Grazie di tutto. E buona fortuna.

— Non c’è di che — disse Felix, sorridendo. — Spero che vada tutto bene. — Si voltò a Zonk, dicendo: — Andiamo laggiù. Voglio vedere che aspetto hanno gli aerei, da vicino.

La macchina si allontanò, sferragliando. Lou si fermò ancora un momento, nella luce crescente dell’alba, a guardarla sparire dall’altro lato della rampa. Poi si voltò ed entrò nel terminal decrepito.

Il primo volo per Albuquerque era alle sette. Un’ora di attesa. Lou, con lo stomaco che protestava per la fame, passò nell’autobar e prese uova in polvere, latte ricostituito e una fetta tagliata a mano di un prodotto che si chiamava protosteak, e che sapeva di plastica.

Nessuno lo fermò né fece caso a lui quando andò nell’atrio di partenza, fece vidimare il biglietto, salì a bordo e prese posto in cabina. L’aereo decollò con dieci minuti di ritardo, mentre Lou, da un momento all’altro, si aspettava di vedere spuntare dall’atrio d’ingresso lo sceriffo federale che veniva a posargli la mano sulla spalla.

Finalmente, l’apparecchio prese quota. Appena Lou sentì l’aereo staccarsi da terra, si addormentò di colpo.

Si svegliò con un sussulto, quando alettoni e carrello furono calati. Adesso dal finestrino si vedeva la distesa verde, familiare delle terre irrigate del Nuovo Messico. In fondo, il Sandia Peak si stagliava contro il cielo, con la sua massa bruna e rocciosa.

Chissà se Bonnie è in casa. Forse non è partita per Charleston. Immediatamente un altro pensiero si affacciò alla mente di Lou: E se mi aspettano quando scendo a terra?

L’aereo atterrò e rollò verso il terminal. Lou s’infilò in mezzo al centinaio di persone che stavano sbarcando e cercò di passare inosservato tra la folla. Si tenne nascosto in mezzo alla gente finché rimase all’interno del terminal, poi puntò dritto verso l’uscita, voltandosi ogni tanto per vedere se qualcuno lo seguiva. Nessuno. Fuori, nel sole accecante, si chiese se la sua macchina era ancora nel parcheggio. Meglio lasciarla dov’è. Fece segno a un tassì, che uscì dal posteggio e accostò al marciapiede.

Una volta dentro, dopo aver chiuso accuratamente lo sportello, Lou disse alla guida automatica: — All’Istituto di Genetica.

Se Bonnie non è stata prelevata dalla polizia, a quest’ora è in laboratorio. E il dottor Kaufman e gli altri mi daranno una mano.

L’auto lasciò la città, fino in mezzo ai campi coltivati, lungo una delle principali reti di irrigazione del paese. Lou, intanto, si chiedeva per la millesima volta perché mai la polizia lo cercava. Lo sceriffo l’aveva dichiarato in arresto. Lo scandinavo del palazzo dell’ONU gli aveva detto che non lo era. Comunque, stavano per portarlo a Messina. Perché? Meglio che vada da Greg all’Istituto a chiedergli se conosce un buon avvocato.

Finalmente, Lou vide apparire i bianchi edifici familiari dell’Istituto. E, quasi nello stesso istante, si rese conto che c’era qualcosa che non andava.

Il posto sembrava deserto. Il parcheggio era vuoto. In giro, non si vedeva nessuno. E non c’era nessuno nel grande atrio a vetri. Quando il tassì arrivò davanti al primo ingresso, il cancello non si aprì automaticamente, come di consueto.

Lou guardò l’orologio. Indicava sempre l’ora di Albuquerque, perché non l’aveva spostata. Erano le nove e mezzo.

Ma perché… un momento! Che giorno è? Domenica o lunedì? Sono partito… sì, oggi dovrebbe essere domenica.

Premette il pulsante del finestrino e subito la vampa del calore esterno penetrò nel tassì. Disse al comando automatico del cancello: — Codice uno cinque, Christopher. Aprite.

Il cancello si aprì. Il tassì scivolò silenziosamente fino alla porta d’ingresso. Per maggior sicurezza, Lou diede nome e carta di credito falsi all’elaboratore del tassì. Essendo sprovvisto di macchina fotografica era nell’impossibilità di controllare l’identità reale del passeggero.