Quando il tassì si fu allontanato, Lou rimase fermo nella luce accecante del sole, battendo le palpebre. Per un secondo, uno spasimo di paura lo trafisse. L’Istituto, pur tenendo conto che era domenica, appariva stranamente deserto. Di solito c’era sempre qualcuno, anche la domenica.
— Bene — disse forte Lou, con voce che voleva essere ferma. — Resterò nascosto qua dentro, finché domani qualcuno non si farà vivo. A meno che chiami Greg o uno del gruppo.
L’ingresso principale era chiuso, ma il nome di Lou e il suo numero di codice erano sufficienti per far aprire le porte. Penetrò nell’oscurità fresca e silenziosa dell’atrio, dove il riverbero esterno veniva filtrato dai vetri polarizzati. Esitò un momento, poi varcò la soglia e si ritrovò nel corridoio principale. Lo scalpiccio dei suoi piedi sul pavimento di plastica e il leggero ronzio del condizionatore d’aria erano i soli rumori del palazzo.
Per prima cosa, devo chiamare Bonnie, pensò, per sapere se va tutto bene.
Il suo ufficio era situato in fondo al corridoio, accanto a Ramo, il grande elaboratore. Lou a un tratto se ne rese conto. Ma non si sente neanche Ramo! L’elaboratore normalmente emetteva una serie di ronzii e ticchettii elettronici e di solito era sempre in funzione, anche durante i fine settimana e di notte.
Lou spiò attraverso la parete trasparente che circondava Ramo. Il calcolatore era muto. Sul quadro di comando tutte le luci erano spente.
— Ramo, sei sveglio? — chiese Lou.
Dal soffitto, scese la voce baritonale di Ramo. — Sì, Lou, io sto bene. Che cosa posso fare per te? — Una sola fila di spie luminose si accese sul quadro.
Lou tirò un sospiro di sollievo. — Eri così silenzioso. Ho creduto per un momento che qualcuno ti avesse fermato.
— Attualmente, tutti i programmi sono stati completati — rispose Ramo.
— Tutti i programmi? Ma i calcoli del modello zigote?
— Quel programma è stato temporaneamente sospeso dal dottor Kaufman.
— Sospeso? E perché?
— Non lo so.
Lou rimase a guardare, incerto, la fila di spie luminose lampeggianti, mentre una sensazione di panico lo afferrava allo stomaco. Riuscì a controllarsi. — Va bene, ecco, chiamami al telefono Bonnie Sterne, ti spiace? A casa sua.
— Devo passare la chiamata nel tuo ufficio? — chiese Ramo.
— No. Sono al bar. C’è qualcuno qua dentro, oggi?
— Nessuno. Tranne, s’intende, il Grande George.
Scuotendo la testa sconcertato, Lou tornò in corridoio e svoltò in una diramazione laterale, verso il bar. Aveva un forte mal di testa e, nonostante il breve sonno sull’aereo, si sentiva stanco morto. E affamato.
Fu sorpreso nel vedere il Grande George seduto al bar, intento a divorare un piatto enorme di macedonia di frutta.
Il Grande George era un gorilla di otto anni, più alto di Lou, anche quando era a quattro zampe. Da diversi mesi non era più stato pesato perché per gioco faceva volare le bilance oltre i muri dei suoi appartamenti speciali. Aveva un muso feroce, con denti lunghi, sopracciglia sporgenti e irsute, muso nero e pelame ancora più nero. Con le braccia, arrivava senza sforzo dall’altra parte della tavola, e senza neppure darsi la pena di alzarsi dalla sedia. Anche la sedia di plastica si piegava pericolosamente sotto il suo peso. A vederlo, era difficile convincersi che il Grande George fosse un animale gentile, addirittura timido.
— Chi ti ha fatto entrare? — chiese Lou, dalla soglia.
— Sono entrato da solo, zio Lou — mormorò George. — Avevo fame. Nessuno mi dava da mangiare. Ho aperto il cancello e sono entrato per mangiare.
Lou andò al selettore e premette i pulsanti per ottenere un pranzo con una bistecca vera. — Da ieri non è venuto nessuno a darti da mangiare?
— Nessuno, zio Lou. — George si cacciò mezzo melone nella bocca irta di denti. Il Grande George era uno dei maggiori successi dell’Istituto. I genetisti erano riusciti a dotare il gorilla di una notevole intelligenza. Il livello intellettuale di George era pari a quello di un bambino di sei anni, e, a quanto sembrava, non sarebbe progredito ulteriormente. Il gruppo di chirurghi che lavorava in collaborazione con l’Istituto aveva modificato l’apparato vocale di George, mettendolo in grado di parlare con un sussurro rauco, faticoso. Era il massimo cui potevano arrivare.
Lou portò il vassoio fumante all’altra estremità del tavolino a cui era seduto George. Era contento di non essere solo, però era meglio lasciare ampio spazio a George. Non che il gorilla fosse pericoloso, ma era alquanto sbrodolone.
Alzando gli occhi al soffitto, Lou disse: — Ehi, Ramo, e quella telefonata?
— Nessuno risponde — disse la voce attutita.
— Ma non è in casa?
— Evidentemente no — disse Ramo.
— Ma che cosa dice il suo telefono?
— Niente. Nessuna risposta. Non dà nessun numero dove rintracciarla, e non dice neanche di lasciare un messaggio.
Lou chinò gli occhi sulla bistecca. Di colpo la fame gli era passata.
— Ramo! — gridò. — Ma dove sono gli altri?
— L’intero gruppo scientifico è stato preso in custodia dagli sceriffi federali — disse Ramo, impassibile. — Gli altri sono stati rimandati a casa.
Prima che la mente di Lou lo percepisse, George bofonchiò: — Qualcuno arriva in corridoio, zio Lou. Estranei.
— Sceriffi federali — disse Ramo. — Sono stato programmato per chiamarli, appena tu fossi tornato in Istituto.
VII
Lou si alzò, in preda al terrore. — Sceriffi federali?
— Hanno bloccato le porte e stanno perquisendo l’edificio per trovarti — disse Ramo, senza traccia di emozione.
— Ho paura, zio Lou — sussurrò George.
— Quanti sono? — chiese Lou a Ramo.
— Dodici.
George spinse indietro la sedia e andò a mettersi accanto a Lou, così vicino che Lou sentiva il calore del suo corpo peloso. Il gorilla era terrorizzato. Gli sceriffi non sanno che è così timido. C’è il rischio che gli sparino, appena lo vedono.
— La porta che dà sul cortile è chiusa?
— Sì — rispose Ramo. — Le porte sono tutte chiuse.
Nell’atrio, adesso, si sentiva un rumore di passi. Lou si voltò verso George che sbuffava, stretto a lui tutto spaurito.
— Ce la fai ad aprire quella porta, George?
— Posso provare, zio Lou.
Lou gli batté sulla grossa spalla. — Fa’ presto, allora!
George sgambettò in direzione della porta, travolgendo una sedia al suo passaggio.
Da fuori una voce gridò: — Avete sentito? Da questa parte, presto, aprite!
In quel momento, George si lanciava attraverso la stanza a lunghi balzi, sbattendo i grossi piedi e le mani contro le piastrelle. Lou, per tenergli dietro, era costretto a correre. Davanti alla porta, George non si fermò, anzi, non rallentò neppure. Semplicemente la attraversò di schianto, facendo volare in pezzi sotto la sua massa e la sua spinta la serratura. I battenti saltarono dai cardini con tale fragore da far venire la pelle d’oca.
Lou si trovò immediatamente dietro a George, nel riverbero improvviso del sole.
— Da questa parte, George!
Adesso era Lou che correva per primo; attraversò il cortile e il sottopassaggio di accesso alla parte posteriore dell’edificio. Quando si fermò, indicò la macchia di alberi, dietro la zona di parcheggio.
— Torna laggiù… nel tuo recinto — ansimò. — È il posto più sicuro per te. Non ti daranno noia… laggiù.