Ann Maxwell
I danzatori del fuoco
Capitolo 1
IL GIOCO DEL CAOS
Onan era il più libero e licenzioso pianeta della Confederazione Yhelle. Non c’era attività che vi fosse proibita. E come risultato di ciò le ricchezze della Confederazione vi affluivano, quasi attirate — e saldamente trattenute — dalla sua forza gravitazionale. La tentacolare città-spazioporto di Nontondondo era un labirinto di grattacieli multicolori, di strade lastricate di speranza ma intrise di disperazione, dove il rumore della folla e del traffico poteva raggiungere livelli insopportabili.
«Kirtn!» Rheba dovette gridare, per farsi udire dal poderoso Bre’n che le camminava a fianco. «Riesci a vedere l’insegna del Buco Nero?»
Le mani di Kirtn si chiusero intorno alla vita della ragazza, e in un istante Rheba fu sollevata con la bocca all’altezza di un orecchio di lui.
«Riesci a vedere il casinò?», gli gridò ancora.
«Dista appena un paio di isolati», rispose lui.
Perfino la vibrante voce da basso di Kirtn stentò a farsi udire nel frastuono assordante prodotto dalle insegne pubblicitarie sonore e dai veicoli. Le sue labbra modularono allora la risposta nel linguaggio fischiato dei Bre’n, ed i trilli intensi e melodiosi sovrastarono come una cascata di gemme la cacofonia stradale di Nontondondo. La gente che udì si soffermò perplessa, guardandosi attorno con l’aria di non individuare affatto la sorgente di quel suono così insolito.
Tutto ciò che videro fu un umanoide di statura possente, muscoloso e ricoperto d’una cortissima peluria ramata che dava alla sua pelle l’apparenza di un fine velluto. Sulla testa la peluria si mutava in una normale capigliatura, ondulata e rossiccia. Una mascherina di setole dai metallici riflessi dorati circondava invece i suoi occhi, mettendone in risalto la calda espressività. L’abito aderente informava i passanti che era da poco sceso da un’astronave privata.
Vestita in foggia più fantasiosa, Rheba appariva snella e minuta a paragone del suo compagno, sebbene la sua statura fosse superiore alla media umana. Aveva vaporosi capelli dorati ed occhi cerulei, nei quali l’azzurro del cielo sembrava concentrarsi e risplendere. Chi la osservava di spalle poteva vedere che la chioma le proseguiva in una sottile linea di peluria, giù lungo la liscia schiena dalla pelle abbronzata. Ma a diversificarla dalle altre razze umane o umanoidi c’era anche un particolare quasi invisibile: infatti sotto l’epidermide delle sue mani spumeggiava l’intricato arabesco che la qualificava come una giovane Senyasi, una Danzatrice del Fuoco.
Dopo che Kirtn l’ebbe rimessa a terra, mentre stavano per avviarsi sull’affollatissimo marcipiede, dalla ressa sbucò un passante che urtò con forza la schiena della ragazza. Due mani sudaticce la afferrarono per le spalle, e nel volgersi ella vide una faccia larga e brutale su cui stava prendendo forma un sogghigno di laida ammirazione. Il sottilissimo tatuaggio sotto la pelle delle mani di Rheba scintillò, quando ella le sollevò d’istinto per tenerlo a distanza, e da esso nacque una lampeggiante scarica elettrica d’avvertimento. Il rude individuo fece subito un balzo all’indietro, come se ella scottasse, e vacillò quasi che le sue estremità nervose fossero state percorse da un fuoco. Boccheggiava, con espressione vacua.
«Crédo che in futuro l’amico ci penserà due volte, prima di mettere le zampe addosso a una Danzatrice del Fuoco», ghignò soddisfatto Kirtn.
Il Bre’n agguantò l’uomo, che barcollava ancora, e lo depose in uno dei vagoncini che la polizia usava per rastrellare gli ubriachi, posteggiato presso il marciapiede. Poi raggiunse la ragazza, e assieme tagliarono la folla fino all’ingresso del Buco Nero. Appena ebbero oltrepassato la porta di cristallo insonorizzante, parve loro che il vasto atrio del casinò fosse silenzioso come un cimitero al paragone della strada esterna. Kirtn approvò quella quiete scoprendo la dentatura candida e massiccia in un sorrisetto.
Rheba si stava ancora soffregando il dorso delle mani, dove le linee del disegno sottocutaneo erano sfumate nell’opacità. I suoi capelli ondeggiavano lievemente, come se l’energia che aveva richiamato in sé seguitasse a percorrerli alitandovi una vita extracorporea. Per calmarsi mormorò fra sé l’Ottava Norma di Deva, lasciando che i residui di quell’energia defluissero, da lei insieme all’irritazione che le aveva fatto perdere il controllo. Era venuta in quella città straniera di sua volontà, rifletté, e dunque avrebbe dovuto sopportarne la gente e i costumi, per quanto insultanti o bizzarri potessero sembrarle. Ma lo sguardo dello sconosciuto l’aveva spaventata.
«Avremmo dovuto acquistare un Permesso di Omicidio», borbottò di malumore.
«Non abbiamo neppure abbastanza soldi per comprare un semicerchio d’argento, ovvero metà del cerchio intero che qui indica la possibilità di pagarsi un omicidio legalmente. Accontentati della tua licenza da Innocua».
«Un’Innocua, già. Comunque non dicevo sul serio». Con una smorfia Rheba osservò il frammento di cerchio d’argento che aveva cucito su una spallina, uno spezzone corrispondente a 30 gradi d’arco. «Avanti, scoviamo l’uomo che siamo venuti a cercare, e poi andiamocene da questo dannato pianeta puzzolente».
Si stavano dirigendo alla porta interna, quando un impiegato del casinò vestito interamente di nero li avvicinò. La sola decorazione della sua uniforme era un cerchio d’argento fissato su una spalla. Kirtn e Rheba valutarono il simbolo per quel che significava, e quando l’uomo aprì la bocca, la loro attenzione era sul chi vive.
«Ehi, voi! Niente Pelosi qui dentro», si sentirono ordinare.
Rheba sbatté le palpebre. «Pelosi?»
«Proprio così». L’impiegato piazzò un dito sul petto di Kirtn. «Questo tipo qui è un Peloso. Tu invece sei una Liscia. E al Buco Nero sono ammessi soli i Lisci. Se non vi va l’idea di separarvi, andate alla Nebulosa d’Oro, in fondo alla strada. Loro accettano coppie miste e ogni altro genere di pervertiti».
I lunghi capelli di Rheba ondeggiarono, sebbene nell’anticamera del casinò non vi fosse un alito di vento, ma Kirtn s’affrettò a mormorarle alcune rapide frasi di Senyas, la lingua madre dei Senyasi e dei Bre’n:
«Calmati. Se lo ferisci o lo ammazzi, le nostre possibilità di parlare con questo Mercante Jal ce le giochiamo in un colpo solo».
«E chi vuole ucciderlo?», rispose Rheba nella stessa lingua. Elargì un sorrisetto all’impiegato dal cerchio d’argento, che li fissava senza capire una parola. «Stavo solo pensando di bruciacchiare un po’ la sua faccia di bronzo. Solo un pochino».
«Neanche a pensarci. Vuol dire che ti aspetterò in strada», replicò Kirtn, teso.
Rheba fece per obiettare, poi ci rinunciò. L’ultima volta che avevano cozzato contro i pregiudizi locali, era stata lei qualla che aveva dovuto aspettare fuori. E non ricordava più neppure se a far scattare la discriminazione fosse stato il sesso, il colore dei capelli, il numero delle dita o cos’altro.
Poggiò una mano su un braccio del compagno. «E va bene. Farò più presto che posso».
Per qualche istante restò immobile, accarezzando la pelle vellutata di Kirtn con un piacere che era sensuale e infantile al tempo stesso. Come altre Danzatrici del Fuoco, ella era stata educata e allevata dal suo Mentore Bre’n, ed il contatto con le sue braccia foltissime velate di peluria era una sensazione che faceva parte dei suoi più lontani e più cari ricordi di vita.
«Potrei capire un pregiudizio contro i … Lisci», mormorò. «Ma verso una peluria come la tua mi pare una cosa contronatura».
Kirtn le sfiorò la punta del naso con un dito. «Attenta a non prendere fuoco troppo facilmente, bambina, o ti caccerai nei guai. D’accordo?»
Lei annuì con un sorriso, e tornò a volgersi all’impiegato. Stavolta parlò in Universale, la lingua usata comunemente su quasi tutti i pianeti della Confederazione. «In questa fogna di posto, avete un gioco chiamato Caos?»