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«Aperta», rispose lei, indicandogli un microfono.

Jal cominciò a gridare una sequela di parole, formate da vocali molto liquide e consonanti secche, e qualche minuto più tardi la luce blu si spense. Con un ansito di sollievo l’uomo abbandonò la testa all’indietro. Aveva la fronte imperlata di sudore.

«Idiota che sono!», mormorò. «Perdo tempo con degli animali, e mi dimentico i robot!»

Gli altri due lo fissavano accigliati. Rheba chiese: «I robot?»

«Quei dannati affari … i satelliti. Loo dispone di satelliti da difesa risalenti all’epoca pre-Confederazione, scaglionati un po’ in tutto il sistema solare. E se le astronavi in arrivo non trasmettono un segnale d’avvertimento, la vaporizzano».

Un altro segnale luminoso apparve a rivelare che l’astronave viaggiava ora su un’orbita stazionaria, a motori spenti. Poi una linea argentea su un pannello prese a pulsare ritmicamente.

«Contatto radio», disse Rheba. «Ci stanno chiedendo una comunicazione audio».

«È l’astroporto della capitale», annuì Jal. «Lasciate che parli io. I Loo sono un po’, come dire, xenofobi. Detestano gli estranei. Ma con me sarà più facile. Mi conoscono bene».

Rheba non toccò alcun comando, ma la linea argentea divenne rossa e bianca. «Parla pure», concesse.

Subito Jal riprese ad esprimersi nella stessa lingua fluida e secca di poco prima. Ci fu una pausa dovuta alla distanza, e quindi giunse una breve risposta altrettanto incomprensibile ma pacata. L’uomo esibì un sorrisetto rassicurante.

«Ci mandano un raggio direzionale», disse. «Quindici gradi all’interno dell’emisfero diurno, all’altezza dell’equatore».

La ragazza mosse una mano verso la strumentazione, ma senza toccarla, e i suoi capelli vaporosi fremettero. «Localizzato», confermò.

«Seguilo fino a terra. Il mio scalo privato ci sta aspettando».

Il Devalon rallentò ancora, lasciò l’orbita e penetrò nell’atmosfera del pianeta. Venti minuti più tardi toccò il suolo presso il terminal di un astroporto, esattamente nel punto da cui il raggio guida era stato emesso, e dopo una rapida analisi dell’atmosfera il computer segnalò al pilota che poteva aprire il portello esterno.

«Tutto bene, apri pure», disse Jal tranquillamente.

Kirtn sfiorò un pulsante, e dalla camera stagna giunse il lieve ronzio del macchinario d’apertura. Nello stesso momento Jal estrasse da una tasca una piccola capsula a pressione, spezzandone il sigillo, e con un sibilo una nuvola di gas soporifero si sparse nella cabina di comando. L’uomo si limitò a tapparsi naso e bocca con una mano, evitando di respirare. Ma Rheba e Kirtn ne erano stati colti di sorpresa.

Pochi istanti dopo la ragazza scivolò al suolo priva di sensi. Il Bre’n invece riuscì a slacciarsi la cintura e si alzò in piedi barcollando, con una luce omicida negli occhi. Jal indietreggiò in fretta, gli puntò contro un minuscolo storditore simile a una matita e premette il pulsante per alcuni secondi, finché anche l’altro cadde svenuto.

Capitolo 4

GLI SCHIAVI DI LOO

L’immenso salone dove l’Imperiale Loo-chim teneva udienza era un locale poligonale completamente bianco, con alle pareti tendaggi che riproducevano forma e colore di cento cascatelle d’acqua. Un sottile ruscello gorgogliava in toni argentini, scorrendo attraverso tutta la sua lunghezza, cosparso di pietre simili a rubini e fiancheggiato da alte felci di cristallo. Immortali e senzienti, le felci erano una delle forme di vita facenti parte del Primo Popolo. Sembravano fremere nell’alito di una brezza rimasta nella loro memoria pietrificata, una brezza che era ormai solo un rimpianto in quella loro vita d’immobile schiavitù sul pianeta Loo. Le pietre di rubino immerse nella corrente emettevano lievi suoni armoniosi.

Rheba fu percorsa da un brivido. La malinconia emanata dagli esseri del Primo Popolo tenuti lì come ornamenti era una sorta di gelida carezza, che le sfiorava la pelle nuda. Ogni indumento le era stato tolto. Le sue braccia erano legate dietro la schiena da un laccio di plastica, all’altezza dei gomiti, e un’altra corda alle caviglie la costringeva a camminare a passi molto corti. Attorno al collo le era stato fissato un collare collegato a un guinzaglio, che non la stringeva molto ma era fornito di lamette affilate nella parte interna. E le striscie di sangue coagulato che le segnavano le spalle erano il risultato di movimenti troppo bruschi ai quali era stata costretta.

Dietro la ragazza era venuto a fermarsi Kirtn, anch’egli nudo. I cavetti di plastica che lo impastoiavano erano assai spessi, e irti di lunghe spine affilate. Più volte aveva cercato di allentarli gonfiando i muscoli, o di divincolarsi, e come solo risultato le spine gli si erano conficcate profondamente nella carne. Il sangue che gli inzuppava la peluria si stava seccando in croste e grumi. Anch’egli aveva il collare.

Mercante Jal, che reggeva i loro guinzagli, stava ora fissando un’enorme bolla di vetro che sorgeva là dove ci si sarebbe aspettati di vedere un trono. L’interno di essa era opacizzato da una specie di nebulosità, che vibrava e fluttuava. Nel salone non c’era nessun altro.

L’uomo dalla pella bluastra rivolse uno dei suoi sorrisetti ironici a due prigionieri. «L’Imperiale Loo-chim capisce l’universale, ma Lui-Lei non si abbassa ad ascoltare le chiacchiere di uno schiavo non Addomesticato. E io non voglio vederlo irritato, perciò mostratevi rispettosi e tacete, o sarà peggio per voi».

Rheba lo fissò in un silenzio così pieno d’odio che l’uomo agitò il guinzaglio, per ritorsione. Una nuova strisciolina di sangue rosso le uscì da sotto il collare.

«Apri le orecchie, cagna di una Liscia: sto per farti un favore, anche se non ci credi».

La ragazza sibilò alcune parole roventi nella sua lingua, natale, fremendo di rabbia.

«Altrettanto a te, qualunque cosa sia», rispose Jal. «Tuttavia cercherò lo stesso di non farti finire nel porcile dove sbattono gli schiavi comuni, la cosiddetta Fossa, da cui uno su dieci esce fuori vivo e Addomesticato. C’è il caso infatti che io riesca a farti acquistare dall’Imperiale, e se gli interessi ti farà mandare al Recinto del Loo-chim per essere Addomesticata. Mi hanno detto che lì ne sopravvive più della metà».

«E di Kirtn cosa ne sarà?»

«Oh, lui andrà al Recinto di certo. Il Polo Maschile dell’Impieriale Loo-chim si diverte ad allevare Pelosi, e talora li fa riprodurre, talaltra se li tiene come amanti. Io conto che gradisca dare una compagna a una certa Pelosa fornita d’una mascherina di peli dorati … Già, c’è proprio una femmina di questa razza, qui. E il Polo Maschile mi pagherà una bella cifra per il tuo amichetto. I collezionisti fanatici non badano mai a spese, lasciatelo dire da me che lo so bene».

La grande bolla vitrea cominciò a schiarirsi, e la nebbia vi turbinò qualche attimo ancora prima di sparire, ma nel suo interno i tre non videro che il vuoto. Poi le felci di cristallo vibrarono come diapason, producendo una nota lamentosa che venne echeggiata dalle pietre rosso rubino del ruscello.

«L’Imperiale Loo-chim», sibilò Jal. «In ginocchio, schiavi. Faccia a terra!»

Né la ragazza né il Bre’n fecero una piega, e furibondo Jal colpì una caviglia di Kirtn con un calcio. Cercarono di scostarsi, ma il guinzaglio li fermò, e strattonandoli spietatamente l’uomo li costrinse ad ubbidire. Sanguinando in abbondanza i due s’inginocchiarono, e imprecando il mercante cercò di farli mettere con la fronte a terra. Non ci riuscì del tutto, e questo gli causò un lieve imbarazzo di fronte alla strana coppia che s’era materializzata dentro la bolla di vetro.

Dopo aver mollato loro qualche altro calcio, l’uomo lasciò lenti i guinzagli ed eseguì un rispettoso inchino. Rheba e Kirtn restarono in ginocchio, per il momento paghi delle lacerazioni che gli tormentavano.