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Capitolo 5

IL RECINTO DEL LOO-CHIM

Visto dall’esterno, il Recinto del Loo-chim era una lunghissima muraglia marroncina alta una dozzina di metri, coperta da un campo di forza pressoché invisibile. Solo lievi riflessioni nella luce solare rivelavano che il luogo riservato all’addomesticamento degli schiavi era sovrastato da quella cupola d’energia.

Da un mormorio dei suoi due prigionieri, Jal comprese che s’erano accorti di quanto fosse mortale il tetto del Recinto, e rivolse loro un sorriso compiaciuto.

«Benone. Sono lieto di vedere che sapete usare gli occhi. Dovrete esser svegli e attenti, se vorrete sopravvivere. Chi prova a scavalcare questo muro finisce arrosto», disse. Si accostò a una striscia azzurra verticale che sembrava dipinta sulla parete, e pronunciò alcune parole come in un interfono.

Rheba aveva avuto un fremito d’eccitazione, nel rendersi conto dell’enorme quantità d’energia imprigionata in quel campo di forza. I suoi capelli si stavano rizzando e fluttuavano lievemente, tutto il suo corpo reagiva come se le cellule fossero assetate, e si chiese se avrebbe potuto raggiungere e sfruttare quella potenza con le sue facoltà. Cominciò a concentrarsi.

«No, Danzatrice del Fuoco!», sibilò Kirtn in Senyas.

La ragazza si riscosse come se la voce del suo mentore l’avesse punta. Si volse a guardarlo con occhi che splendevano d’una luce interna.

«Non provarci neppure», le ordinò il Bre’n. «Non sei in grado di maneggiare tanta energia».

Rheba sospirò e lasciò andare i filamenti di forza che aveva inconsciamente cominciato ad attrarre. Era stanca e a disagio, non essendole stato concesso di mangiare né di provvedere alle sue necessità personali. Tanto lei che il compagno erano sempre nudi e legati.

«È bella», mormorò tuttavia, quasi affascinata dal campo di forza e dalle sue dimensioni. «Energia … così viva, così potente, sempre diversa eppure familiare. Sicurezza e pericolo uniti insieme. È come una Faccia Bre’n. Come te».

Gli occhi di Kirtn riflessero la luce arancione del sole di Loo, mentre osservava pensoso la giovane danzatrice animata da quelle emozioni abbastanza nuove per lei, e da una consapevolezza maggiore di sé, di loro. Stava crescendo troppo in fretta. Un giorno o l’altro avrebbe guardato la Faccia del suo orecchino e capito cosa significava. E allora cos’avrebbe provato?. Sarebbe stata abbastanza matura da capire, e insieme capace di aspettare? Se fossero stati ancora su Deva ella avrebbe avuto modo di maturare con più sicurezza, e avrebbe partorito dei figli per allevarli tranquillamente, prima di giungere a poter vedere la verità nella Faccia. Ma Deva era bruciato, e i suoi superstiti — se pure ve n’erano ancora — sparsi chissà dove nella galassia. I giovani sarebbero stati costretti a crescere rapidamente oppure a morire.

Jal si volse, strappando il Bre’n dalle sue riflessioni. Con un gesto comandò loro di accostarsi alla striscia azzurra, che s’era allargata assumendo l’aspetto di una sorta di tendaggio tessuto d’energia. Li fece arrestare a pochi centimetri da essa.

«Tenete bene a mente quel che vi ho detto, e non dimenticate il regolamento: non sarete considerati schiavi veri e propri finché non andrete a bere al pozzo centrale del Recinto. Quella è la sola acqua che ci sia. E solo quando sarete all’interno dei due circoli concentrici che circondano il pozzo, vi troverete al sicuro dagli attacchi degli altri schiavi. Questo è tutto ciò che sono autorizzato a dirvi».

Prima che i due prigionieri potessero domandare altri chiarimenti, una forza invisibile li risucchiò all’interno del muro. Nel breve intervallo che occorse loro per oltrepassarlo, i legami e i guinzagli scomparvero come disintegrati. Kirtn si volse e vide la striscia azzurra assottigliarsi di nuovo fin quasi a sparire. Il muro che s’era richiuso alle loro spalle era tornato ad essere una parete liscia e invalicabile, che in distanza scompariva in una nebbiolina fitta. All’apparenza quell’inaspettata foschia riempiva l’intero Recinto, rendendo impossibile valutarne l’estensione.

In silenzio si guardarono attorno: un territorio scabro e fangoso, con rade pianticelle che crescevano fra i sassi. La visibilità era inferiore ai venti metri.

«Quanto sarà largo?», borbottò Kirtn.

Rheba si stava massaggiando i polsi intorpiditi. Tese i suoi sensi a percepire i sottili flussi di corrente, le variazioni termiche al suolo e lungo la muraglia, cercando di seguirne l’estensione.

«È molto vasto», riferì. «Potremmo camminare per giorni intorno al perimetro senza ancora tornare al punto di partenza».

«Sembra una landa desolata, invernale e umida», mormorò Kirtn cupamente. «Ma almeno non siamo più legati».

Rheba deglutì saliva. Il gas soporifero che Jal aveva propinato loro le aveva lasciato la bocca amara, e la lingua rigida come un pezzo di cuoio. Aveva sete, e sapeva che anche Kirtn aveva bisogno di bere, ma non era particolarmente desiderosa d’avvicinarsi al centro di quel territorio nebbioso. Sapeva che la zona più attraente, ma più pericolosa, di ogni zona primitiva, era nelle vicinanze di una sorgente d’acqua, dove gli animali che s’avventuravano a cercare la vita trovano invece la morte. Quel luogo e lo scopo cui doveva servire le parvero assurdi.

Eppure non sarebbero stati più riposati e forti come in quel momento, dunque esitare era ancora peggio. Senza parlare si allontanarono dal muro fianco a fianco, con andatura tranquilla ma guardinga. Rheba rimpianse di non avere neppure le scarpe. Sollevò gli occhi e cominciò ad assorbire energia dall’alto, con cautela e facendola defluire via da sé man mano che la attraeva. In quell’operazione il suo corpo si comportava come una vasca col rubinetto e lo scarico aperti: non poteva trattenere l’energia nelle sue cellule ma non osava neppure smettere di assorbirla, per timore d’essere colta d’improvviso da qualche assalitore. Non dubitava che qualcuno — o qualcosa — li avrebbe attaccati. L’unica incertezza era quando.

Da lì a poco percepirono un insieme di rumori lontani, che avrebbero potuto essere lamenti o imprecazioni. Un paio di forme indistinte e dall’apparenza umanoide comparvero nella foschia e svanirono subito dopo, con uno stormire di frasche spostate. Il terreno prese a scendere verso un avallamento cespuglioso, in cui s’intrecciavano sentieri fitti di orme umane. Poi una lievissima brezza spostò la nebbia ed essi videro una piccola forma bipede.

Era una bambinetta umanoide di pelle chiara, del tutto nuda e molto emaciata. La metà sinistra del suo volto appariva ustionata orribilmente ed incrostata di sangue, eppure era ancora viva e in grado di camminare. Vacillava qua e là mandando gemiti debolissimi e penosi.

D’istinto Rheba corse verso di lei, impietosita. Ma subito lo strato più basso della nebbiolina si rivelò fitto di cespugli alti fino alle sue ginocchia, nei quali finì per inciampare rotolando malamente sul terreno melmoso. Si rialzò con un ansito e riprese a correre verso la bambina.

In quel momento alcune forme scure acquattate al suolo balzarono in piedi, emettendo grida rauche nell’aggredirla, e la ragazza fu scaraventata a terra da uno spintone. Una bocca umana gocciolante di saliva le si spalancò sul collo, e nel sentire i denti affondarle bestialmente nella carne ella gridò e scalciò. Poi fece sprigionare tutta l’energia che. aveva assorbito. Gli assalitori lanciarono guaiti di dolore e indietreggiarono a balzelloni, contorcendosi nella vampata crepitante che li aveva avvolto, ma quello che le si era avvinghiato addosso non ne era stato colpito e seguitò a stringerla. Kirtn sopraggiunse, gli spezzò il collo con un violentissimo manrovescio e lo spostò con un calcio che terminò l’opera. Ringhiando verso il gruppo degli avversari sollevò la ragazza sulle braccia, allontanandosi svelto in una direzione a caso. Nessuno si azzardò a inseguirli.

«La bambina!», gemette Rheba, divincolandosi. «Lasciami … la bambina!»