Выбрать главу

«Un’esca», disse lui. «Era una trappola Gtai».

La parola ebbe il potere di farla fermare. Ricordava ora alcune delle cose che Jal aveva detto loro, a bordo dell’astronave, e l’uomo aveva menzionato anche certi esseri semintelligenti chiamati Gtai. Si trattava di umanoidi primitivi che cacciavano in gruppo, abili ad attirare la preda verso un’esca ferita della stessa specie. E che all’esca si avvicinasse un salvatore oppure un predatore d’altro genere, ai Gtai non importava molto.

Mentre Kirtn la portava via, la ragazza si massaggiò il punto in cui i canini del Gtai l’avevano morsa. Il gruppo che l’aveva assalita doveva essersi organizzato per tendere agguati ai nuovi arrivati, e c’era mancato poco che non l’avessero uccisa. Si pentì di non aver fatto più attenzione alle parole di Jal.

«Ma la bambina …», mormorò angosciata. «Non possiamo lasciarla in mano a quelle bestie».

E tuttavia non avrebbero potuto fare assolutamente nulla contro una banda intera di predoni, rifletté addolorata. Loro erano stati fortunati a cavarsela, la bambina no. Doveva accettare la bruta realtà di questo fatto come aveva accettato la fine di Deva. Avrebbe dovuto cancellare dalla sua mente quel piccolo volto bruciato, troppo simile a tutti i cari volti del Senyasi e dei Bre’n arsi vivi nell’olocausto. Aveva cacciato nel fondo della sua memoria quel dolore, e avrebbe dovuto ignorare anche questo. Ma una mano gelida le stringeva il cuore in una morsa di pena insopportabile.

«Sto meglio», disse con voce piatta. «Mettimi giù, posso camminare anche da sola».

Kirtn esitò. Aveva già sentito quella nota di vuoto nella voce di lei, anni addietro, e sapeva bene da quale disperazione interna nasceva.

«Sto bene, ti dico», ripeté lei. «Non ho intenzione di fare cose sconsiderate, stai tranquillo».

«Anch’io m’ero dimenticato di quel che ha detto Jal», ammise lui. La lasciò e poi le esaminò la ferita al collo. «Devo succhiartela. Girati un poco».

Con un sospiro lei si riunì i capelli dietro la nuca, annodandoli in un concio improvvisato, e inclinò la testa. Jal aveva parlato di veleno illustrando la poco simpatica natura dei Gtai, ma era meglio non rischiare.

«Fammi un po’ di luce», disse Kirtn.

Rheba creò una piccola sfera d’energia luminosa, fredda e innocua, e la sollevò fra le dita come fosse una rigida bolla di sapone. Poi cercò di non mugolare di dolore mentre il compagno succhiava il sangue e lo sputava via. Una fitta la fece imprecare, sebbene sapesse che Kirtn non si divertiva certo a vederla soffrire.

Dopo aver succhiato un paio di minuti il Bre’n le sentì le pulsazioni al polso e le esaminò le pupille. «Ti senti debole e apatica? Hai difficoltà a muovere le dita?»

«Non avverto nessun sintomo. Solo dolore dove il Gtai e tu mi avete morsa», cercò di scherzare lei.

Kirtn non sorrise. S’era mostrato freddo e sicuro, ma dentro di sé ancora rivedeva la bambina ferita. Adesso era scomparsa nella nebbia, ma egli sapeva che era là da qualche parte, destinata a soffrire ed a morire. Un giorno, promise a sé stesso, non sarebbe stato più uno schiavo chiuso in una cinta di mura. E quel giorno gli ideatori del Recinto avrebbero pagata cara la loro bestialità.

Evitando la zona più fittamente cespugliosa ripresero ad avanzare verso l’interno di quel territorio. Sporadiche grida giungevano fino a loro, fievoli per la distanza, ed a tratti scorsero forme confuse che non riuscirono a identificare bene. Rheba teneva Kirtn per mano, intrecciando le dita alle sue nel modo che le era abituale fin da bambina, quando era appena una cosuccia alta poche spanne che doveva correre per tenere il passo di lui. In silenzio il Bre’n muoveva un dito contro il suo palmo, godendo di quel contatto familiare più di quanto ella non sospettasse, conscio che il Recinto sembrava studiato apposta per far regredire i suoi ospiti a un’emozionalità infantile o primitiva.

La nebbia ogni tanto si diradava, ma non abbastanza. Qua e là fra gli sterpi videro cadaveri di schiavi orribilmente mutilati e scarnificati, come ad opera di piccoli carnivori. Lì dentro i malati, i feriti, i deboli, tutti erano evidentemente destinati a finir preda dei divoratori di carogne. Dopo aver supplicato e bestemmiato in cento lingue diverse, il linguaggio eterno dell’agonia e del dolore li accomunava nella stessa conclusione.

Ma erano i bambini quelli che Kirtn e Rheba guardavano con maggiore sgomento. E sapevano che i loro poveri volti li avrebbero perseguitati negli incubi, sommandosi agli incubi che già si portavano dietro dal giorno della distruzione di Deva.

Di nuovo la foschia s’infittì, e i due attraversarono una zona dove numerose varietà di piante prosperavano sul suolo umido. Continuavano a udire grida umane in distanza, ma nessun essere vivente si fece loro incontro fra la caligine. Non era possibile dire se a tutelarli fosse l’apparenza fisica del Bre’n, oppure il fatto che nessuno aveva molto da guadagnarci ad assalire proprio loro.

Ciò malgrado, la strana sensazione d’essere pedinati cominciò ad innervosirli. Il luogo era decisamente macabro spiacevole come un paesaggio emerso da una tetra preistoria, e il sentiero su cui s’erano incamminati faceva continue svolte a tratti arrampicandosi su piccole alture cespugliose. Sugli sterpi crescevano fiori dal profumo dolce, vividi di colori, che però Rheba badava bene a non toccare: stava imparando che nel Recinto del Loo-chim tutto poteva nascondere un’insidia.

Quando il sentiero si divise, alla base di una collinetta, presero per la diramazione che appariva più battuta, ma d’improvviso numerose forme umane avanzarono a sbarrare loro la strada. I due poterono contare una trentina di individui dei due sessi, appartenenti a varie razze diverse e quasi tutti armati di bastoni. Attesero che qualcuno di loro si decidesse a parlare, ma nessuno lo fece né mostrò aperte intenzioni ostili. Uno degli uomini indicò Rheba, fece un gesto osceno verso i propri genitali e invitò la ragazza ad accostarsi.

Con un’imprecazione Kirtn afferrò la compagna per un polso e uscì subito dal sentiero, quindi la incitò a correre. Tuttavia il gruppo non si mosse e non li infastidì, se non con risate beffarde e frasi offensive. Dopo una cinquantina di metri rallentarono di nuovo al passo, aggirarono un’altura, e senza preavviso si trovarono di fronte quelle che sembravano essere le rovine di una piccola città.

Kirtn fece arrestare la ragazza, insospettito nel notare le bizzarre sfaccettature cristalline di quelle macerie, e si rese conto che non si trattava affatto di edifici diroccati.

«Torniamo indietro», sussurrò.

Come a un segnale, dall’insieme di strane costruzioni si levò un suono spettrale e penetrante nel sentire il quale i due indietreggiarono ansimando. Jal aveva accennato loro qualcosa circa certe rovine risonanti, affermando che a parte un incontro con i Darkzoi non c’era in tutta la Confederazione nulla di peggio di quel che li aspettava se le avessero avvicinate.

La nota armonica faceva legare i denti e stordiva anche da cento metri di distanza. Ad emetterla non erano esseri inerti, bensì minerali intelligenti del Primo Popolo, il cui sistema di comunicazione era basato su vibrazioni sonore. Si trattava di un’arma di difesa, tuttavia la sofferenza causata da quel suono terribile era tale da annichilire e distruggere una mente umana in pochi secondi.

«Non c’è da stupirsi se quegli schiavi non ci hanno seguiti», disse Rheba. «Magari contavano di ritrovarci più tardi, col cervello ridotto in poltiglia, e … forse di usarci come cibo. Mercante Jal ci ha mentito: nel Recinto la mortalità è superiore al cinquanta per cento».

«Sarà meglio raggiungere il pozzo centrale, o presto faremo parte anche noi della percentuale più sfortunata», borbottò Kirtn.

La ragazza imprecò contro quel posto, le sue leggi assurde e Jal che li aveva fatti finire lì, ma lo sfogo le servì a poco. Il Bre’n sostò ad esaminare le collinette intorno a loro in cerca di un riparo confortevole, dove riposare un poco, ma non vide che terreni scabri e troppo esposti.