Il capobanda fu investito da un fulmine che zigzagava orizzontalmente e la sua carne bruciò sfrigolando. Accanto a lui tutti quelli che si trovavano in posizione eretta furono arsi vivi, mentre chi era steso al suolo presso il Bre’n poté ringraziare quella circostanza che casualmente lo aveva salvato. Una dozzina di donne e cinque uomini fuggirono in preda al panico fra la vegetazione che bruciava, lasciando dietro di sé solo morti e feriti.
Rheba cercò di richiamare energia per far spegnere quei piccoli incendi, fra i quali vedeva contorcersi dei corpi umani, ma non ne fu capace. Provava orrore per sé stessa. Quella scena le riusciva atrocemente familiare, e nella sua mente si sovrapponeva ad altre uguali nel loro contenuto di fuoco e di morte: i Senyasi ed i Bre’n che abbandonavano terrorizzati una stazione dietro l’altra, mentre i deflettori cedevano e l’alito della nova s’abbatteva sulla superficie di Deva. I Danzatori e le Danzatrici del Fuoco, che in ogni luogo cercavano di respingere il plasma stellare per difendere quanti più potevano, e venivano infine annientati loro stessi … Dovette urlare dentro di sé, per respingere le immagini che scaturivano da quell’angolo proibito della sua memoria. Cadde in ginocchio accanto al Bre’n e gli prese la testa fra le mani.
«Kirtn! …», singhizzò, cercando di non vedere quello che lo scatenarsi del suo fuoco poteva avergli fatto.
Dopo quella che le parve un’attesa interminabile il compagno aprì gli occhi. Nelle sue iridi d’oro si riflessero le Linee di Potenza che ancora brillavano sulla braccia di lei. Cercò di tirarsi a sedere, emise un grugnito e si sollevò su un gomito, poi con uno sforzo riuscì a mettersi in ginocchio. Il suo sguardo si soffermò sui corpi di alcuni schiavi letteralmente arrostiti, e sugli sterpi che crepitavano dappertutto. Si volse a guardare la ragazza tremante e per un poco non disse nulla, ma alzò una mano a carezarle una guancia con un gesto d’affetto che voleva consolarla del suo spavento.
Appoggiandosi a lei si rimise in piedi. I riflessi dei numerosi incendi, nella nebbia che tornava ad addensarsi, erano luci ed ombre che giocavano sui loro corpi nudi e infangati.
«Mi dispiace, piccola Danzatrice», sospirò. «Non per loro … credo che pochi sarebbero sopravvissuti comunque. So che quel che hai fatto è contrario alla tua natura».
«Io … non mi sono neppure accorta di quel che stavo facendo». Rheba rifiutava di guardare i cadaveri. «Tutto ciò che sapevo era che non dovevo colpire te. Io non vorrei più vivere, Kirtn, se tu morissi».
La ragazza si osservò le braccia, dove nuove Linee di Potenza si erano aggiunte alle altre complicandone il sottile arabesco. Man mano che si opacizzavano e spegnevano, cominciavano a pruderle forte. Se le grattò leggermente, quasi lieta di quell’occupazione che le distraeva la mente. Poi si appoggiò a una spalla di lui.
«Andiamocene da questo posto», lo pregò.
Tenendosi per mano si allontanarono in fretta. Rheba avrebbe desiderato lasciare dietro di sé quella nebbia e tornare alla luce del sole, ma l’umida caligine sotto la cupola del campo di forza velava tutto, come nella mezza luce di un sogno che non aveva risveglio. Quando accelerarono il passo sul sentiero la fatica fisica fu quasi la benvenuta. Le impediva di pensare con chiarezza, e teneva la sua attenzione fissa su cose insignificanti.
Un boschetto di alberi fronzuti emerse dalla foschia. Erano forniti di rami sottili che si stagliavano alti, e le loro foglie filiformi si agitavano come alghe in preda alla corrente. Ma nella zona non c’era un alito di vento.
I due si fermarono meravigliati. Davanti a loro il sentiero si divideva. Una diramazione s’inoltrava dritta fra gli alberi, la cui fronde color lavanda la ricoprivano piacevolmente, e terminava sulla riva di uno specchio d’acqua che era tutto un invito al riposo.
Avanzando cautamente Kirtn osservò con desiderio il piccolo stagno circolare, dove gli alberi allungavano le. loro radici ramificate come a suggerne l’acqua. Avrebbe potuto raggiungerlo in una ventina di passi, e sebbene insospettito fremeva per la voglia di bere e di lavarsi le ferite in quel liquido cristallino.
«No. C’è qualcosa di strano, Kirtn», lo fermò lei.
«Lo so. Ma cosa?»
«Vorrei non avere tanta sete. Mi rende difficile persino star qui a pensare», si lamentò Rheba fissando la polla d’acqua. Poi trasalì. «Forse siamo arrivati! … Jal ha detto che al centro del Rifugio c’è un pozzo. Potrebbe essere questo».
«Tu credi?»
Lei chiuse gli occhi e tese le sue facoltà a captare le sottili correnti energetiche verso la muraglia perimetrale. Poi scosse il capo. «No. Sento che la recinzione è vicina da un lato, ma molto lontana da quello opposto. Questo non può essere il centro».
Kirtn si chinò a raccogliere un pesante sasso, calcolò la distanza e lo scagliò nel mezzo dello stagno. L’acqua zampillò alta, ma con strani riflessi argentei e sprigionando una nuvoletta di fumo.
«Acido», commentò Rheba con una smorfia. Poi indietreggiò. «Guarda!»
Sui bordi della polla le radici degli alberi si stavano torcendo come fasci di serpenti vegetali. Pochi secondi dopo una di esse emerse dal liquido ritorta attorno al sasso, e lo trascinò a riva. Ai due parve che venisse esaminato, analizzato in cerca di sostanze organiche e quindi scartato. I vegetali tornarono allo stato di quiete in attesa della prossima preda.
«Morodan?», chiese Rheba, ripensando ancora a quel che aveva detto Jal.
«Trykke, direi. Esseri vegetali del Secondo Popolo».
La ragazza osservò il boschetto di piante come affascinata. Non le era mai capitato di vedere vegetali senzienti, così complessi e di tali dimensioni.
«Mi chiedo come avranno fatto a trapiantarli qui. Chissà cosa pensano e cosa dicono, mentre aspettano che qualcuno venga a dissetarsi nel loro stagno di acido».
«Quello è il loro stomaco. E dall’altezza che hanno raggiunto, credo che si trovino qui da molti secoli».
«Potrebbero essere diventati pazzi, in questo ambiente?»
Kirtn sorrise. «Può darsi. Oppure sono soltanto Addomesticati. Degli schiavi anche loro».
«Schiavi vegetali?», Rheba rabbrividì.
Il Bre’n le fece cenno di seguirlo, e s’incamminarono sul sentiero girando al largo delle piante. Una cinquantina di metri più avanti dalla foschia provenne un gemito che li fece arrestare ancora, allarmati. In una radura erbosa, una donna umanoide dalla pelle coperta di peluria liscia giaceva accanto a due bambini della stessa razza. Appariva ferita gravemente e incapace di muoversi. I piccoli, un maschio e una femmina, le si stringevano addosso in cerca di calore e di conforto.
Nel vedere Rheba che si avvicinava la donna ansimò qualcosa in lingua universale, e ordinò ai bambini di scappare a nascondersi. I figli si alzarono tremando, indecisi se ubbidire o starle accanto, infine corsero fra i cespugli non troppo distante da lì e si acquattarono spaventati, tenendo gli occhi fissi sulla madre.
«Non aver paura», disse Kirtn, rassicurante. «Non vogliamo far del male né a te né ai bambini, credimi».
Lei non rispose. Da una brutta ferita al fianco sinistro le colava un rivolo di sangue, e appariva ormai allo stremo. Guardò Rheba con occhi dove non c’era paura, ma solo una rassegnazione animalesca a qualunque cosa stessa per accaderle. Tremava per il freddo e per la sfinitezza.
Rifiutando di pensare a un’altra trappola la giovane Senyasi le si accostò con decisione, mentre Kirtn la seguiva cauto a distanza di sicurezza pronto a intervenire in caso di pericolo. Si chinò sulla donna ad esaminare le sue condizioni e il Bre’n rimase di guardia. Era un’umanoide ancor giovane, notevolmente ben fatta e robusta, ma le sue possibilità di sopravvivere erano defluite da lei col sangue che inzuppava il terreno.