«È il più importante del casinò», borbottò l’uomo, poi accennò con un moto sprezzante al permesso cucito sulla spallina di lei. «Ma non è un gioco adatto ai gonzi … o un’Innocua».
Di nuovo le chiome di Rheba ondeggiarono «Lo dice la Legge, o è soltanto la vostra opinione?»
L’impiegato si limitò a una spallucciata.
«Allora, dov’è questo gioco?», chiese lei seccamente.
«Sul fondo del salone da gioco, al centro, dove c’è la grande piramide di cristallo. Ma i dilettanti non possono oltrepassare la balaustra».
Mentre Rheba lo aggirava, diretta alla porta interna, la voce dell’altro la raggiunse con un altro commento astioso: «Mi auguro che tu abbia lasciato in strada anche la tua ignoranza, oltre al tuo amico Peloso. Qui dentro c’è gente che di omicidi può permettersene dozzine».
Scacciando la tentazione di voltarsi per replicare a tono, la ragazza proseguì a passi decisi. L’ingresso del salone centrale del casinò era protetto da un campo di forza simile a un tendaggio, che nell’attraversarlo le diede una sensazione carezzevole, e subito fu assalita da una cacofonia di voci e di rumori elettronici. Il soffitto era un unico immenso schermo da videogame, dove pareva svolgersi una battaglia di galassie. A livello del suolo i giocatori invocavano o bestemmiavano i loro dèi in tutte le lingue della Confederazione Yhelle, ma i rituali a cui si dedicavano non avevano bisogno di traduzione per esser capiti.
Rheba parlava soltanto tre lingue: il Senyas, il Bre’n e l’Universale, e Kirtn era l’unico essere vivente con cui avrebbe potuto comunicare nelle prime due. La babilonia di linguaggi incomprensibili che le raggiungeva le orecchie la lasciò un attimo frastornata, dandole l’impressione d’essere più isolata e sola che mai. Era un Senyasi, e Kirtn era un Bre’n. Soltanto loro due, a quanto per il momento ne sapeva, erano scampati al terribile olocausto quando il sole Deva aveva investito con le sue fiamme esplosive i cinque pianeti più interni del sistema.
Una Senyasi, un Bre’n. E un’intera galassia colma di gente che per loro era straniera.
Con uno sforzo allontanò da sé i ricordi della tragedia, che minacciavano di sommergerle la mente. Lei e Kirtn erano pur sopravvissuti, si disse, e dunque doveva esser rimasto in vita anche qualcun altro. Pochi forse, e chissà dove. Ma era suo unico desiderio e scopo cercarli, e li avrebbe ritrovati, anche se questo le avrebbe preso i secoli che sarebbe durata la sua vita.
Si fece strada nei passaggi lasciati liberi dalla folla dei giocatori, talora accalcati a decine intorno a un tavolo, talaltra intenti a un gioco singolo che accentrava ipnoticamente le loro facoltà mentali. Lo spazio per muoversi era scarsissimo, ma dove una parola cortese o una spintarella non bastavano, ella usava una scossetta d’energia, provocando lievi sussulti in chi le stava ostruendo il cammino. In breve riuscì a raggiungere la grande piramide alta una dozzina di metri intorno alla quale si svolgeva il gioco chiamato Caos.
Subito comprese che il soffitto a schermo del salone costituiva lo sviluppo visibile di quel grande videogame, e che le immagini venivano create dai giocatori stessi tramite i rispettivi computer di gara. Sui gradini della piramide erano scaglionati posti a sedere, che parevano riservati ai giocatori più abili, mentre quello sulla cima era un vero e proprio piccolo trono, ma anche quelli ai tavoli che ne attorniavano la base erano forniti di un terminale di computer. Chi riusciva ad arricchire, acquistando potenza, era autorizzato a scalzare dal suo posto un giocatore a un livello superiore della piramide. E i giocatori che riuscivano a mettere in gioco più denaro avevano anche più potere su quanto avveniva sul grande schermo.
Per tener fede al nome del gioco, le regole erano soggette a cambiare di continuo, e tali mutamenti potevano essere prestabiliti sia dalla maggioranza dei giocatori, sia dal singolo che era riuscito a portarsi sulla più alta posizione di controllo. L’unica norma fissa era questa: se qualcuno restava senza denaro sufficiente a proseguire il gioco, veniva immediatamente fatto sloggiare dai robusti impiegati del casinò. Su Onan, la penuria di soldi èra considerata un ottimo motivo per penalizzare o disprezzare qualcuno.
Barare ed escogitare imbrogli d’ogni genere non era affatto proibito. Al contrario vi si doveva far ricorso quasi obbligatoriamente, se non si voleva essere rovinati o rimandati a un posto più basso da altri concorrenti più astuti. E saper tutto sull’elettronica e sull’arte dell’imbroglio era la qualità di chi voleva vincere a Caos. Chi restava vittima di un baro non aveva che da biasimare se stesso. E chi voleva vendicarsi poteva farlo atrocemente, qualora avesse un permesso d’omicidio, … e sempreché la vittima non disponesse di amici o parenti altrettanto pronti a vendicarlo. Come le aveva detto l’uomo all’ingresso, Caos non era precisamente un gioco adatto a chi aveva appena una licenza di Innocua. E tuttavia la licenza d’innocua di Rheba consisteva soltanto nella sua mancanza di denaro.
Si mosse verso la stazione di uscita dei giocatori, cercando di accostarsi a un umanoide bianco di pelle e di capelli, sul cui polso le era parso di scorgere una cicatrice a zig zag. Non era il solo della sua razza, e mentre Rheba scivolava lungo la balaustra esterna del Caos notò che non era neppure il solo ad avere cicatrici. Si fermò indecisa.
«Giocate con me?», chiese una voce di soprano dietro di lei.
Volgendosi vide che a parlarle era stata una donna di pelle nera, bellissima e flessuosa, il cui costume era un vero e proprio oltraggio al pudore. Gestiva un gioco a un tavolo elettronico, e fra i seni le pendeva un anello d’argento che dava un tocco perverso alla sua sensualità.
«Sono in’Innocua, Signora», sorrise Rheba, «ma non una stupida. No, Cerchio d’Argento, grazie».
La ragazza le restituì il sorriso e riprese ad accumulare pile di gemme scintillanti, in attesa che qualche altro avventore si lasciasse incantare gli occhi da quell’arcobaleno di gioielli.
Rheba percorse con lo sguardo i tavoli da gioco intorno alla base della grande piramide, dove sedevano un centinaio di individui dei due sessi e di svariate razze umanoidi, e in quel momento li sentì mandare esclamazioni eccitate. Alzando lo sguardo vide il motivo della loro agitazione: un giocatore dalla pelle azzurrina, con capelli d’un blu intenso, si era impossessato proprio allora del piccolo trono posto sul gradino più alto. Quando fu seduto e poggiò le mani sulla consolle dei comandi, la ragazza poté vedere la cicatrice che gli scorreva dal polso fin sulle nocche delle dita. Ma più che la cicatrice fu la collana che gli cingeva il collo a farle capire che l’uomo era quello, perché il pendente era una mascherina d’avorio splendidamente intagliato d’inconfondibile fatture Bre’n.
«Mercante Jal!», lo chiamò Rheba agitando le braccia.
L’uomo abbassò lo sguardo. L’espressione seccata e altera poteva significare che il richiamo l’aveva irritato, oppure era semplicemente il sintomo d’un temperamento sdegnoso.
«Io detesto le bionde, e specialmente quelle con una stupida licenza di Innocua», disse, facendole un cenno di congedo. S’appoggiò allo schienale, aggiustandosi la blusa in modo che il cerchio d’argento su di essa risaltasse in evidenza. Il suo gesto riuscì ad essere nello stesso tempo vanitoso e larvatamente minaccioso.
«Eppure ci sono due cose che abbiamo in comune», disse Rheba a voce alta per farsi udire.
«Una sarebbe già troppa!», sbottò Jal con un’occhiataccia, sorpreso che un’Innocua ignorasse il suo velato ammonimento.
«La prima è che anch’io detesto voi. E la seconda è l’interesse per i manufatti di artigianato Bre’n».
Un lato della bocca dell’uomo si contrasse, rivelando stupore o forse un impulso di rabbia. «Manufatti Bre’n? …», chiese tuttavia.