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Rheba vacillava nel fumo acre che li avvolgeva. Poi tossì e cadde in ginocchio accanto al compagno, stordita e semisoffocata.

Capitolo 7

LA VOCE DEL SERPENTE

Con un gemito rauco Rheba si divincolò dalle braccia di Kirtn, si alzò e fuggì via come cieca e priva di mente. Desiderava solo correre fino a ridursi senza più memoria né sensibilità, fino ad annientarsi. Ma la difficoltà di respiro e la debolezza vinsero quel suo impulso autodistruttivo, ed ella cadde al suolo poco più avanti, afflosciandosi sull’erba.

Pian piano la sua respirazione tornò normale e l’ossigeno le schiarì i pensieri, ma si trattava di pensieri così intollerabili che ella se ne sentiva schiacciare. Era perseguitata dalle immagini di ciò che aveva visto, ed avrebbe voluto gridare e piangere. Ma non poteva. I suoi occhi restarono asciutti, nelle iridi i bagliori delle fiamme le si rifletterono come luci vuote, ed essa restò seduta sentendosi non più reale e concreta d’un fantasma in quella nebbia. Udì un fischio allarmato di Kirtn e volse appena il capo, incapace di rispondere.

Alle sue orecchie giunse infine il rumore frusciante di passi che s’avvicinavano fra gli sterpi. Dietro di lei qualcosa di grosso e pesante si stava aprendo la strada nel sottobosco.

Ebbe un brivido nel rammentare la descrizione che Jal le aveva fatto del Darkzoi, un animale fornito di ali artigliate e zampe cornee, voracissimo, vulnerabile solo agli occhi ed alla fessura genitale. Se non si fosse alzata subito, la cosa che stava arrivando alle sue spalle l’avrebbe avuta alla sua portata entro un attimo. Si volse raggelata, in attesa di vedere quale genere di morte le sarebbe piombata addosso.

I rumori continuavano ad avvicinarsi: stormire di fronde, calpestio, sbattere di ali nell’aria e rami che si spezzavano seccamente. Ma ancora nulla le si mostrava, per quanto scrutasse nel profondo della fitta vegetazione. Anche il cielo, pur offuscato, era del tutto sgombro.

Si ritrasse lentamente, guardando in tutte le direzioni, e d’improvviso un animaletto sottile quanto un suo dito e lungo meno di un metro sgusciò fuori dagli sterpi. Si trattava di un serpente, che muoveva la testa da una parte e dall’altra con la bocca spalancata, e all’apparenza la fonte di tutto quel baccano era nel suo apparato vocale.

«Santo cielo, tu non sei certo un Darkzoi», sospirò la ragazza. «Anzi tu sei una creatura spaventata quanto me. Non è così? E produci questo fracasso solo per sgombrare la strada da chi potrebbe minacciarti, se ho capito bene. Insomma … dovresti vergognarti». Sorrise fra sé, osservando il rettile. «Vieni qui, coraggio. Non ti farò del male. Su … vieni?»

Rheba si mosse verso il serpente, che nel vederla s’era subito rimpiattato dietro alcuni ramoscelli e faceva oscillare la testa, soffiando piano. Era ricoperto di squamette lucide, dal tono dorato sul dorso e argenteo nella parte ventrale.

«Sei molto grazioso», mormorò lei. «E non mi vuoi affatto mordere, vero? Se il tuo morso fosse pericoloso come i rumori che sai fare, non ti nasconderesti né ti proteggeresti con questo stratagemma».

Con un gesto rapido allungò una mano e afferrò il serpente dietro la testa, sollevandolo da terra. Il rettile si contorse un poco, la fissò con occhietti colmi di luce porporina e di colpo si abbandonò inerte. Era molto più pesante di quanto lei si fosse attesa. Con stupore si chiese se fosse morto, e subito sentì che diventava freddo.

«Ehi, serpente!», chiamò, scuotendolo appena.

Le parve che non desse più segno di vita. Possibile che fosse bastato il tocco delle sue dita ad ucciderlo? O era stato lo spavento? Incredula osservò il rettile e poi le sue mani, domandandosi se il suo destino era d’uccidere tutto quello con cui veniva in contatto. Negli occhi le luccicarono due lacrime. Poi con un gemito si piegò in avanti, poggiò la fronte sull’erba e scoppiò in un pianto dirotto e irrefrenabile. Da molto tempo quei singhiozzi aspettavano di uscirle liberamente dal petto, quasi che per anni li avesse costretti dentro di sé rifiutando di darvi sfogo. Ed ora una causa apparentemente da nulla era la chiave che faceva scattare la serratura di quella porta mentale.

Kirtn le si accostò a passi lenti, più confuso che addolorato nel vedere la sua prostrazione. Sedette, allungò un braccio ad attirarla contro di sé, e cercò di consolarla come meglio poteva. A differenza della lingua Senyasi, adatta alla precisione di una società tecnologica, il vecchio linguaggio Bre’n era emozionale ed evocativo. Kirtn lo usò per far placare i suoi singhiozzi, accarezzandola dolcemente.

«La morte è solo l’attimo di pausa fra due battiti del cuore»,, fischiò. «I bambini vivranno ancora, chissà dove e chissà quando, e quel giorno li amerai ancora, e piangerai ancora per loro. I sorrisi e le lacrime che avrai sono più di quelli che hai già avuto».

«Lo so», mormorò lei. «Ma quelle che ho adesso mi bastano, perché è adesso che muore tutto ciò che tocco. Guarda … questa povera creatura fredda e inerte anche lei!»

Tirando su col naso sollevò il corpiciattolo del rettile, che Kirtn notava in quel momento per la prima volta. Poi scosse il capo alla domanda fischiata dal Bre’n.

«Era lì fra i cespugli», rispose mesta. «Si nascondeva e … faceva tanti rumori diversi, non so come, perché io credessi che era un animale terribile e spaventoso. Ricordi quel che ha detto Jal sui rumori che fa il Darkzoi?»

Il compagno annuì con aria incoraggiante.

«Questo povero animaletto imitava il chiasso di una bestia feroce per farmi scappare via …», di nuovo la voce di lei si spezzò nel pianto.

«Allora io ho guardato e guardato, e ho visto soltanto un serpente che sembrava un ramoscello e … e ho pensato che aveva tanta paura di me, così l’ho preso in mano, perché ho pensato che se non ero riuscita ad aiutare la bambina … la bambina …»

Kirtn attese, lasciando che l’ansito dei suoi polmoni si spegnesse ed ella ritrovasse la voce. Dopo qualche secondo la ragazza parlò ancora, in tono quasi vuoto d’emozione: «Così ho sollevato il serpente dai cespugli. Ha soffiato contro di me, ma io sapevo che se fosse stato pericoloso non avrebbe usato quella difesa sonora così impressionante. E infatti non era pericoloso. Era una creaturina innocua e delicata». Alzò il serpente e scosse il capo con un ennesimo sospiro. Le scagliette rifletterono la luce, come gemme. «Questo animaletto bello e senza nome è morto di paura fra le mie mani».

Il serpente aprì gli occhietti e disse: «Il mio nome è Fssa. Sul serio dici che sono bello?»

Rheba per poco non lo lasciò cadere. D’un tratto un fremito aveva percorso l’epidermide scagliosa, e il rettile era tornato caldo.

«Tu sei vivo!»

«Sì», disse Fssa, sollevando la testa. «Ma sono bello?»

La ragazza ebbe un secondo piccolo schock, nel rendersi conto che l’animale aveva fischiato in perfetto linguaggio Bre’n.

«Non è possibile … Tu fischi il Bre’n!»

«Sì», rispose lui. «Ma davvero sono bello?»

L’insistenza del serpente, petulante e infantile, era addolcita dal tono melodioso di quella lingua. Kirtn sorrise e lo sfiorò con le dita, incuriosito.

«Sì, sei molto bello», lo rassicurò Rheba, in Senyas. Non sapeva se piangere o ridere. «Ma dove hai imparato il Bre’n?»

«Me lo avete insegnato voi, proprio adesso», fischiò Fssa.

I due umani si scambiarono un’occhiata, poi Kirtn domandò, in Senyas: «Stai cercando di farci credere che hai imparato due lingue solo ascoltandoci parlare per pochi secondi?»

«La lingua fischiata è abbastanza difficile», ammise il serpente quasi controvoglia. «Ci sono molti colori in ogni nota. Ma i gorgheggi sono deliziosi. È uno dei linguaggi più eccitanti che io abbia mai usato».