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Kirtn sentì scossette nervose salirgli al cervello da ogni punto di contatto fra i loro corpi, ed era un genere di fiamma che scottava pur senza ustionare, estasi invece che dolore. La ragazza era più adulta e matura di quel che avrebbe dovuto essere alla sua età, almeno fisicamente, anche se dal lato psichico non era ancora pronta per lui. Con uno sforzo che gli risultò odioso staccò la bocca dalla sua, e si decise a volgere lo sguardo sul Signore dalla pelle azzurrina che li fissava con insolenza.

«I nostri scambi di enzimi non ti riguardano», brontolò, altrettanto sarcastico.

Jal si fece avanti pigramente. «Quand’è così, vuol dire che sei pronto per la cagna Pelosa di Signore Puca. Quella ti darà tanti di quegli enzimi da farti venire i capelli bianchi».

«Signore Puca? Credevo che la donna Bre’n appartenesse all’Imperiale Loo-chim».

«Infatti, Puca è il nome del Polo Maschile dell’Imperiale. Quando non si occupa di politica e di governo, è permesso riferirsi a lui come Signore Puca. E nelle stesse circostanze che la sua Chim può essere chiamata Signora Kurs. La Signora mi ha fatto sapere che non vuole aspettare la fine della Concatenazione perché tu ingravidi la Pelosa. Ha paura che suo fratello cambi idea. Di conseguenza adesso tu andrai da quella cagna ogni notte, per dieci notti di fila … Ovviamente ti occuperai di lei solo dopo che Signore Puca avrà fatto i suoi comodi».

Rheba non poté fare a meno di provare pena e ansia, al pensiero di una Bre’n costretta a fare sia la prostituta sia la femmina da riproduzione al servizio del Loo-chim. Provò vergogna per il suo precedente impulso di gelosia. Se Kirtn avesse potuto portare conforto alla Bre’n, non sarebbe stata certo una Senyasi a dirsi contraria. Strinse una mano al compagno, cercando di comunicargli senza parole quel che pensava. Voleva rassicurarlo sul fatto che non ci sarebbe stata gelosia a rovinare i loro rapporti. Poi osservò freddamente Jal.

«Potrà sembrarti strano, visto che sei tanto fine e civilizzato», ringhiò. «Ma i Bre’n non usano accoppiarsi fra loro indiscriminatamente, come invece è di moda fra voi schiavisti degenerati».

Jal strinse le palpebre. «Se il tuo amico non riuscirà a ingravidare la cagna Pelosa, gli verrà fatto un prelievo di sperma e si procederà alla fertilizzazione artificiale. Certo, Signora Kurs non lo apprezzerà molto: lei vuole che gli appetiti della Pelosa vengano soddisfatti da un maschio della stessa razza. Più tardi poi, quando la cagna Bre’n sarà in attesa dei cuccioli, Signora Kurs si prenderà una piccola vendetta su suo fratello portandosi nell’alcova il Peloso maschio». Sogghignò ampiamente a Kirtn. «E se non farai il tuo dovere, magari la Signora Kurs potrebbe pensare che a sfinirti troppo è la tua amichetta bionda … In tal caso vi farebbe subito separare, finché non avrà ottenuto il risultato sperato».

«Rheba e io non siamo amanti né compagni di letto, lo sai», disse Kirtn.

«A chi vuoi darla a bere, furbone? Noi Loos la sappiamo lunga su questi argomenti. Più tardi verrà una guardia a prelevarti, perciò stai pronto e riga dritto».

Capitolo 17

LA RECLUSA

Kirtn seguì la silenziosa coppia di guardie attraverso le stradine deserte e buie. Era notte fonda, ma qua e là si vedevano muoversi schiavi che non avevano bisogno di luce per lavorare. Si trattava di individui schivi, provenienti da chissà quale pianeta sperduto e destinati a faticare duramente fino alla morte, ma non erano quelli che stavano peggio. In tutta la zona chiusa — così era chiamato il quartiere dov’erano tenuti i futuri partecipanti alla Concatenazione — molti umanoidi dagli occhi brillanti come lampadine o con la pelle fluorescente affinavano i loro particolari Talenti e provavano le Azioni.

Il quartiere era recintato, composto da una gran quantità di edifici cadenti attorniati da vicoli ciechi, rampe, muri e cancellate. Le costruzioni in blocchi di pietra massiccia davano un’impressione di antichità millenaria, e il selciato era stato reso liscio da generazioni di schiavi a piedi scalzi. L’aria era tiepida, umida, ma poco prima aveva piovuto e al suolo c’erano pozzanghere fredde.

Dalle vecchissime case emanava un odore sgradevole, misto di sporcizia e di cibi di pessima qualità, e alcune fognature erano scoperte, ma la brezza portava con sé il profumo del mare. La capitale di Loo sorgeva presso l’equatore, sulla riva di un oceano del quale Kirtn non sapeva il nome né la forma, e tutto ciò che poteva dire era che alla periferia di essa c’era più di un astroporto. Ma non era in grado di fare alcuna supposizione sulla sorte toccata al Devalon: Jal poteva aver lasciato l’astronave lì, averla venduta, o averla portata altrove, sebbene le due ultime ipotesi fossero le meno probabili.

Le guardie si fermarono dinnanzi a un portone permeato da lievi e minacciosi bagliori d’energia: uno di essi parlò nell’interfono collegato alla serratura, e il sistema di sicurezza si spense automaticamente. Come le altre misure adottate per impedire le evasioni dalla zona chiusa, anche quella era piuttosto inadeguata. Non esistevano ostacoli davvero insuperabili per uno schiavo dotato di normale intelligenza e abilità. Nessuno … salvo la consapevolezza che lasciare il pianeta era tutt’altra faccenda, e che la punizione per i fuggiaschi era la morte. I Loos davano per scontato che uno schiavo Addomesticato fosse intelligente, e che di conseguenza non si sarebbe suicidato tentando stupidamente la fuga. Gli unici a lasciare la zona chiusa erano quelli che le sofferenze facevano quasi uscire di senno, e che poi vagavano senza meta fino a incappare in una pattuglia o a morire di fame.

Ciò malgrado Kirtn s’impresse nella mente tutte le chiavi verbali che le guardie usarono per oltrepassare i portoni e i cancelli interni. Non era cosa difficile per un Bre’n, le cui facoltà mnemoniche erano sviluppate al pari di altre caratteristiche psichiche: da millenni i membri della sua razza venivano allenati a guidare le pericolose energie mentali dei Danzatori Senyasi.

Ci furono altri portoni, e altre chiavi verbali usate per aprirli. Poi intorno a lui l’aria divenne più dolce, e nella notte gli giunse alle nari il profumo di piante in fiore. Il mare non era lontano, ne poteva sentire la risacca. Fra le nubi splendevano le due piccole lune del pianeta. Gli sarebbe piaciuto poter salire su un edificio, per farsi un’idea del territorio circostante, ma tutto ciò che i suoi occhi vedevano erano le ombre di un giardino cinto da alti muri. Lo attraversarono, e in fondo ad esso la porta di una villetta si aprì a un ultimo comando verbale. Davanti a lui apparve un locale illuminato di luce gialla e ben arredato, e sulla soglia dell’abitazione si stagliò la figura scura di una donna Bre’n: Ilfn. Il suo armonioso fischio di saluto fu uno dei suoni più piacevoli che Kirtn avesse mai udito.

Nell’accennargli di entrare, Ilfn sorrise appena. Le guardie si allontanarono senza dir parola, e quando la porta fu chiusa Kirtn si rese conto d’essere dinnanzi a una realtà inseguita per anni e anni: una donna dalla sua stessa razza. Era rigido per l’emozione.

La mano destra di lei si levò ad accarezzargli la mascherina di peluria intorno agli occhi, nel caratteristico gesto Bre’n di benvenuto. Ilfn era di statura inferiore alla media e non gli arrivava che al mento, come Rheba. I peluzzi sulle sue arcate orbitali erano di un giallo dorato più chiaro del suo, che risaltava maggiormente a causa della sua pelliccia piuttosto scura. Era così tesa che al tocco di lui sul viso ebbe un brivido violento.

«Fin’ora lo speravo soltanto … Non osavo credere davvero che un giorno avrei di nuovo incontrato un Bre’n», disse Ilfn sottovoce. «Mi hanno tenuta in vita solo la speranza e il dovere verso il mio Akhenet, il bambino. Anche tu sei un Akhenet, vero?»