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Del tutto nuda e rivelando una totale indifferenza, lasciò al suolo gli indumenti e tornò a concentrarsi sul gioco, mentre due impiegati del casinò erano saliti a controllare la sua roba con meticolosità professionale. La loro ricerca portò alla luce solo alcune minuscole armi da difesa e il pacchettino di gemme, queste ultime abbastanza preziose ma peraltro comuni. Non fu trovato nulla che potesse esser messo in relazione con gli influssi subiti dal perfezionato computer del casinò.

«Esaminate il suo orecchino», suggerì Jal dal suo trono.

Impassibile Rheba consultò il terminale sulla regola di cui era vittima, quindi sollevò ironicamente un sopracciglio:

«Gli orecchini non vengono considerati indumenti da togliersi», gli comunicò con un sorrisetto.

Senza esitare Jal batté sui tasti della sua consolle, usufruendo del suo potere di mutare le regole a piacimento purché fosse disposto a pagarci dieci volte la tassa di partecipazione. Lo sfizio gli costò 20.000 crediti, e gli spettatori mandarono risa ed esclamazioni di meraviglia, affascinati nel vedere come si buttavano via i soldi sulla piramide del Caos. Sul terminale di Rheba apparve la norma nuovamente corretta: tutti gli ornamenti personali del giocatore n° 7 dovevano essere rimossi ed esaminati dagli esperti.

La ragazza si tolse con un sospiro l’orecchino di fattura Bre’n, la cui complessa chiusura lo fissava al lobo dell’orecchio in sette punti diversi. Era un gioiello e insieme anche l’assicurazione che ella non avrebbe mai dimenticato il volto rappresentato in quella mascherina. La sapienza dell’artigianato Bre’n faceva sì che quel volto rimanesse identico pur se osservato da un’angolazione molto laterale. Era una faccia dall’espressione distante, stranamente sensuale e ossessionante.

Ma prima di voltarsi a consegnare quel piccolo oggetto agli impiegati, la ragazza consultò il computer. Vista la cifra di cui era in possesso batté una richiesta per la direzione del casinò, e questa le fece pervenire tramite la consolle stessa un cerchio d’argento nuovo di zecca. Lo tolse dal cassettino e vi infilò una grossa ciocca di capelli, usandolo come fermatreccia.

L’oggetto indicava la possibilità economica — e dunque del tutto legale — di pagarsi un delitto, simboleggiando una vera e propria licenza di uccidere. Così munita osservò da pari a pari i dipendenti del casinò. L’orecchino tintinnò nella sua mano protesa.

«Esigo che non sia danneggiato. Per me ha un valore che non è calcolabile in denaro», disse in tono d’avvertimento.

L’impiegato che lo prese esibì estrema cura nel maneggiarlo. Lo passò al vaglio di un’apparecchiatura portatile, e l’analisi rivelò solo che alla sua struttura molecolare erano associate cellule di osso fossilizzato. Glielo restituì.

«Qui non c’è niente d’irregolare, Jal», riferì l’uomo infine.

«Satin?» L’interrogativo di Jal era diretto a qualcuno dietro le spalle di Rheba.

La ragazza si volse e vide con una certa sorpresa la bellissima negra che le aveva rivolto la parola poco tempo prima. Le si stava accostando, e la fissava con occhi socchiusi.

Quale che fosse l’esame a cui Satin le stava sottoponendo, esso fu brevissimo. La negra ebbe un gesto d’incertezza. «È quasi certamente una PSI, ma … nessun blocco anti-PSI è stato forzato». La fissò con franca curiosità. «Sei strana, tu. Da dove vieni, ragazza?»

«Da un pianeta chiamato Fortuna, nella costellazione della Dea Bendata».

Satin esplose in una vibrante risata, ironica e divertita nello stesso tempo. Si mosse a passi flessuosi verso Jal, e lo fissò in un silenzio che era un’attesa e una sfida insieme. L’uomo stava però guardando Rheba con occhi duri e ostili.

«Quando avevate di fronte una semplice Innocua, vi disgustava parlarle, Mercante Jal», disse lei. «Ora siete sul punto di scendere da quel trono fasullo … Ma potreste risparmiarvelo, se solo mi deste l’informazione che cerco».

«La tua lingua avrebbe bisogno d’essere spuntata, cagna!», ringhiò l’individuo.

«Questa è la quarta cosa che abbiamo in comune: anche la vostra lingua osa troppo. Vi consiglio di accettare un’offerta onesta».

«E pretendi di lasciarmi al mio posto, in cambio? Che stupida illusione. Tu non vali la metà di quel che credi, piccola imbrogliona dai capelli biondi».

«Allora che ne dite di una scommessa a parte?»

Jal parve interessato. «Sentiamo: cosa metti in palio?»

«Risposte».

«Troppo vago. Diciamo invece … tre settimane di servitù».

Rheba esitò. Se avesse vinto lei, Jal sarebbe stato costretto a servirla praticamente in qualità di schiavo per tre settimane, ma l’idea che l’uomo avrebbe disposto di lei nello stesso modo per un periodo così lungo non era accettabile. Le conveniva pensare bene a quel che stava rischiando.

«Tre giorni saranno più che sufficienti per i miei scopi», propose. All’improvviso provava verso di lui un disgusto notevole.

«Ma non abbastanza per i miei», affermò Jal con un sorrisetto spiacevole. «Tre settimane, ho detto».

Per un istante la ragazza desiderò esser fuori portata di quegli occhi blu scuro fissi nei suoi. Sentiva acutamente il bisogno della vicinanza rassicurante di Kirtn e della sua forza. Poi ricordò a sé stessa che non erano venuti su Onan per divertirsi. Il desiderio di riunirsi ad altri della sua razza era la sola cosa che la spingesse a vivere.

E Mercante Jal aveva al collo un pendente Bre’n.

«Ci sto», disse con voce atona.

Aveva appena finito di parlare, quando l’altro pagò ancora dieci volte la tassa di partecipazione e le regole del Caos vennero mutate a suo piacimento. I colori scomparvero del tutto dai corpi astrali che riempivano il grande soffitto-schermo, lasciando il posto a luci bianche identiche per tutti. E con lo svanire dei colori, Rheba comprese che le sue possibilità d’azione si riducevano drasticamente.

Capitolo 2

FUGA DAL PIANETA ONAN

Appena Rheba si fu rivestita, chiese al computer l’estratto conto del suo AVO. Possedeva abbastanza crediti per cambiare le regole lei stessa una decina di volte, ma questo non sarebbe servito che a un’inutile sfida: Mercante Jal disponeva di una somma maggiore, e avrebbe potuto riportare ancora nel computer le sue regole fino a lasciarla senza denaro.

L’ammontare del suo conto cominciò a diminuire. Il navigato Professionista doveva aver archiviato con qualche stratagemma la posizione di tutti i suoi corpi astrali, secondo un codice diverso dal colore, e al contrario di Rheba era ancora in grado d’identificarli. La ragazza non era in grado di distinguere i suoi, e lì per lì non riuscì a escogitare nessuna contromisura. Gli attacchi di Jal erano diretti un po’ contro tutti i giocatori di calibro inferiore, segno chiaro che quella nuova regola mal si prestava a contrastare i Professionisti più ferrati dei livelli dal secondo in su, ma fu Rheba ad accusare le perdite.

In silenzio lesse sul terminale l’ordine di scendere al quarto livello, e si alzò per ubbidire. Era difficile ignorare il vuoto allo stomaco che le dava il sentirsi così impotente, e si lambiccò il cervello per stabilire una qualsiasi linea di condotta. Riuscì solo a vedere più chiara la sua condanna: niente colori significava agire al buio, e in un gioco di quel genere la cosa era priva d’ogni senso. Deglutì un groppo di saliva quando sul terminale lampeggiò il comando di trasferirsi al terzo livello. Le sue perdite erano molto più rapide di quanto non lo fossero state le vincite.

«Sei sempre in tempo a ritirarti», le comunicò Jal in tono trionfante. E rivolse agli altri un ampio ghigno di soddisfazione.