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«Fssa, che cos’hai?»

Vedendo che non dava cenni di vita lo chiamò ancora, disperata, finché la sua voce si ruppe in un singhiozzo che trasse una fredda eco dalle pareti corrose. Allora mandò lo sferoide di luce ad aleggiare sopra di lui. Appena lo ebbe posto a contatto del corpiciattolo mutò l’energia luminosa in calore. Per riuscirci dovette usare ogni sua forza, ma non poteva sopportare l’idea che quella creatura stesse morendo davanti a lei. Si rifiutò di pensare che fosse già troppo tardi, e dimenticò ogni altra cosa per riscaldarlo.

Il piccolo globo emanava una radiazione infrarossa, che ella percepiva come una semplice presenza collegata alle sue linee di Akhenet. La concentrò sul serpentello, attenta a non lasciarla disperdere inutilmente nell’aria. Per un attimo temette il rischio di bruciargli l’epidermide, poi rammentò quant’era stata innocua per lui la scarica che aveva strinato la peluria sull’avambraccio di Kirtn.

Occorse più di un’ora prima che nel serpente apparisse un segno di ripresa. Il suo colore mutò dal nero al bruno, poi le scagliette presero a divenire rossicce qua e là, e infine il suo dorso rifletté di nuovo toni dorati e argentei.

«Stai meglio, Fssa?»

La testa affusolata si sollevò dalle spire, e gli occhi di rubino si aprirono a guardarla. La sua circonferenza s’era allargata quasi del doppio. Di colpo emise un collarino di spie gialle, eccitato. «Hai trovato il modo di dare fuoco alla pietra?»

«No, purtroppo», sospirò lei.

«Allora da dove viene questo calore?»

«Da me».

«Tu stai … sacrificando la tua energia per riscaldarmi?», strillò Fssa inorridito. Subito strisciò via per allontanarsi dal globo di luce infrarossa, ma questo lo seguì in ogni suo spostamento. «Nooo! Non devi! Non devi!»

La voce stridula del serpente le graffiò i nervi. «Vuoi smetterla, sciocco rettile? Più ti muovi, e più fatico a darti calore».

Fssa si arrestò e per un poco rimase zitto, con la testa ripiegata sotto le sue spire come se volesse nascondersi a lei ed a se stesso. Poi mandò un fischio dolente: «Non sprecare la tua forza per me, Danzatrice del Fuoco. Io non me lo merito».

Troppo stanca per parlare, Rheba lasciò che lo sferoide rispondesse per lei continuando a emanare calore.

«Tu non capisci, non sai», gemette Fssa. «Io non sono quello che credi».

«Io credo che tu sia bello».

Il serpente mandò un involontario fischio di compiacimento in linguaggio Bre’n, ma lo sfumò subito in una nota d’amarezza. «No, Danzatrice del Fuoco. Io non sono una cosa bella. Io sono … un parassita!»

La ragazza dovette rimuginare stancamente su quella frase, prima di cominciare a capirla. «Ma che dici? Tu non bevi il sangue né mangi la carne di creature viventi. Prendi solo ciò che gli altri ti danno spontaneamente. Il freddo ti fa sragionare, mio povero Fssa».

«Né sangue né carne, certo … ma l’energia corporea sì».

Soltanto la lingua Bre’n poteva esprimere con tanta emotività la vergogna e il disgusto che lo Fssireeme rivelava d’avere per sé stesso. E solo nello stesso linguaggio era possibile rispondergli.

Rheba inspirò lentamente aria, e ripeté: «Non hai mai preso nulla che non ti fosse dato». Il suo fischio fu ricco di toni consolatori.

«Tu non mi conosci bene. Io … ti ho derubata», si accusò lamentosamente l’altro.

«Ma via, Fssa …»

«No, ascoltami. Dopo quel che ti dirò, la smetterai di consumarti per un parassita inutile come me. Sul pianeta natale degli Fssireeme, prima che venissero gli uomini a mutare la nostra razza, dividevamo il tempo in due stagioni di vita. C’erano i mesi della Luce, e c’erano i mesi del Buio. Durante la Luce d’energia era abbastanza perché tutti potessero nutrirsene a sazietà. Ma poi veniva il Buio, e questo era assai più lungo e interminabile, mesi e mesi senza energia da assorbire. E per vivere noi Fssireeme abbiamo bisogno di energia. Così il nostro corpo … può assorbirla … da altri animali».

Dopo una breve pausa continuò: «È facile. Costretti a cacciare durante il Buio, i miei progenitori proiettavano un’illusione sonora per attirare la preda. Appena si accostava abbastanza le saltavano addosso e risucchiavano la sua energia … e continuavano a nutrirsene finché moriva. Poi cercavano un’altra preda, e un’altra, finché non tornava la Luce, volando nei mari d’aria di Ssimmi. Questo accadeva un’eternità di tempo fa, ma la nostra natura e i nostri bisogni sono gli stessi. Come credi che mi sia nutrito fin’ora? Io sono un parassita … e i tuoi capelli sono pieni di energia libera!»

Rheba cercò qualcosa da rispondergli ma non seppe trovare le parole. Compativa l’incapacità del serpente di mantenere il calore del suo corpo come i mammiferi, e immaginava che una creatura intelligente provasse vergogna a fondare la propria esistenza sul parassitismo. Ma non le pareva che Fssa si sarebbe lasciato consolare facilmente. Provò a muoversi per raggiungerlo e subito dovette rinunciarvi, impedita dalle catene. Sentiva che era importante rassicurarlo sui suoi sentimenti. I pensieri le si confondevano nella testa fino a diventare un groviglio. Tutto si sfumava nel freddo e nel torpore.

«Sei bello, Fssa», sussurrò.

Il serpente mandò una specie di vagito. «Risparmia la tua forza. Lasciami morire».

«Non dirlo neppure per scherzo».

Nella mezz’ora seguente Rheba si limitò a stare distesa al buio, concentrandosi sulla volontà di rimanere viva. Si girò su un fianco e tese ancora le catene per raggiungere Fssa, ma non ci riuscì. Il serpente la osservò un poco, quindi prese a trascinarsi lontano da lei come per sfuggire al globo d’energia che invece lo seguiva imperterrito.

«Non è troppo gravoso per me scaldarti», disse la ragazza. «E non mi importa di quello che hai raccontato. Terrò accesa la sfera di energia su di te. Perciò farai meglio a smetterla di scappare qua e là, ed a venire da me».

Fssa si allontanò fino all’angolo. Per la frustrazione e lo scoramento Rheba avrebbe voluto gridare. Odiava il buio, e il debole lucore che aveva creato le dava l’impressione d’essere isolata in un mondo di tenebra.

«Mi sento sola, Fssa. Vieni fra i miei capelli e parliamo un po’. Potremmo anche cantare il duetto della canzone Bre’n. Per favore, bel serpentello … ho bisogno di te».

«Sono ancora bello?»

«Molto bello, certo».

«Questa è la quarta volta, oggi. Dovevi dirlo due volte soltanto. Ricordi?»

Rheba rise debolmente, con una guancia poggiata a terra. Il globo calorifico che sovrastava Fssa palpitò, si indebolì e si spense del tutto. Ma non importava molto ormai, perché il serpentello era scivolato nuovamente fra le sue chiome e lì si arrotolò. Lasciò, penzolare la testa sopra un orecchio della ragazza e cominciò a mormorare una canzone. Ella tentò di unire le labbra per fischiare il ritornello, ma le aveva così rigide e gelate che dovette rinunciarvi. Allora gli disse con parole confuse cosa significava per lei la sua compagnia in quella situazione. Più tardi, mentre giaceva sfinita, si accorse che Fssa aveva trovato il modo di eseguire il duetto da solo, usando due voci nello stesso tempo.

Lo rimproverò debolmente di quello spreco d’energia, ma per un poco le tornarono le forze e volle cantare con lui la stessa canzone in lingua Senyasi. Le loro voci risuonarono fra le massicce pareti della cella, e giù lungo i corridoi oscuri e silenziosi della prigione sotterranea.

Capitolo 23

NEL BUIO DI UNA CELLA

Signore Jal entrò proprio mentre Kirtn stava pensando a lui, appoggiato al muro opposto del vasto locale. Fece la sua comparsa preceduto da Dapsl, che agitava minacciosamente nell’aria una sferza neuronica. Dall’estremità dell’oggetto sprizzavano scintilloni di fiamma azzurrina lunghi un metro ogni volta che sfiorava qualcosa di solido, e lo schiavo lo fece guizzare in direzione del muscoloso Bre’n con l’intento di spaventarlo e tenerlo alla larga.