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L’aria si fece assai più fredda quando scesero una ripida scala a chiocciola stretta fra possenti pareti di pietra. Gli scalini erano concavi e lisci nel centro, a rivelare che per secoli gli schiavi e i loro guardiani s’erano serviti di quel percorso. Sulle pareti c’erano chiazze di umidità, e se il soffitto non era pieno di ragnatele come altrove lo si doveva alle infiltrazioni d’acqua. Giunto in fondo all’interminabile scala Kirtn rabbrividì.

Davanti a lui si aprivano angusti tunnel immersi nella tenebra e nel silenzio, e l’aria puzzava di escrementi e sudiciume, ma ciò che lo colpì subito fu il freddo. Si chiese cosa stesse soffrendo la sua Danzatrice del Fuoco, se lui stesso si sentiva gelare come fra muri di ghiaccio. A testa china rifletté sui molti modi che c’erano per uccidere un uomo, e sulla verità delle torture attraverso le quali lo si poteva condurre a desiderare la morte. Ma come gli sarebbe stato possibile torturare l’uomo che aveva chiuso Rheba a languire in quella tomba gelida, quando l’istinto gli diceva di spaccargli il cranio in un sòl colpo?

Quasi intuendo i suoi pensieri Signore Jal gli stava a distanza di sicurezza. L’unica luce era quella della torcia elettrica che s’era applicato alla cintura, e gliela teneva puntata addosso. Non si fidava certo della sua apparente docilità, così come non si sarebbe fidato neppure della propria madre. Kirtn cercò di non apparire minaccioso per non innervosirlo ancor di più, sicuro che il grilletto del lancia-aghi doveva essere fin troppo sensibile.

Fermandosi in attesa di istruzioni lo vide con la coda dell’occhio, ancor più lontano di quel che aveva supposto. Ma non si aspettava facili occasioni da una volpe come Jal.

«Non ci sono guardie a occuparsi dei detenuti? O li lasciate a crepare in cella senza cibo e assistenza?», sbottò.

«Cammina, muoviti», lo incitò l’uomo. «Alla prossima biforcazione prendi a destra, poi il terzo tunnel sulla sinistra. Alla seconda arcata vedrai una sala circolare. La ragazza è nella cella di destra».

«E tu non vieni?»

«Perché dovrei? Tieni, usa la torcia».

Jal gli lanciò l’oggetto e lui lo prese destramente al volo. Doveva avere la batteria mezza scarica, ma gli occhi dei. Bre’n non avevano bisogno di molta luce per vedere alla perfezione. Subito fischiò un richiamo alto e penetrante, col quale informava Rheba che era lì e chiedeva una risposta, ma sebbene l’eco lo portasse lontano non ne ricevette alcuna. Spaventato fischiò, ma udì soltanto un terribile silenzio.

La sua coscienza si ridusse a quella di un animale disperato e folle e cominciò a correre. La torcia bastava appena a illuminare il tunnel, e solo una parte della sua mente contava gli incroci e le arcate, ma dopo appena mezzo minuto si trovò in una vasta sala.

Faceva ancor più freddo che all’ingresso, e sui possenti blocchi di pietra luccicava qualche ghiacciolo. Il suo tentativo di scacciare l’ansia lo avvicinò ancor più pericolosamente a uno stato mentale che confinava col rez. Emise un fischio stridulo che parve graffiare la tenebra, e tese le orecchie: soltanto il silenzio. Tenendo alta la torcia elettrica scrutò attorno in cerca di qualcosa che somigliasse all’ingresso di una cella.

Finalmente s’accorse che in una nicchia sulla destra c’era una porticina, stretta e costruita in massicce lastre metalliche. Al catenaccio, spesso quanto un braccio, era fissato un lucchetto d’acciaio che pur robusto sembrava più vulnerabile del resto della porta. Le mani del Bre’n si strinsero intorno al lucchetto come due morse, poi puntò un piede sul battente e si inarcò con tutta la forza selvaggia che gli scorreva nelle vene come una droga. Il meccanismo interno del lucchetto cedette con uno schianto, ed egli rotolò a terra. Rialzandosi vide che la pesante porta s’era aperta verso l’interno buio.

Rheba era immobile sul pavimento polveroso, ad occhi chiusi e nuda, ridotta da far pietà.

Chinandosi a toccarlo fischiò ancora il suo nome, ma la ragazza era fredda come la pietra e non dava segni di vita. Le mise una mano fra i capelli cercando di captare la lieve energia che vi stagnava sempre, e come annichilito vide Fssa scivolarne fuori e rotolare inerte al suolo.

Nel fondo della sua mente il rez era pronto a divampare, simile alla lava di un vulcano in attesa di esplodere, una promessa di distruzione incandescente e totale. Ma non ancora, disse una voce dentro di lui. Prima doveva avere la prova che fosse morta.

La sollevò dal suolo e la strinse a sé, abbracciandola forte per trasmetterle il calore e l’energia psicofisica del suo corpo. Con mani esperte premette i punti nevralgici della sue Linee di Potenza, e le inviò un flusso mentale di energia. Fu solo allora che sentì il battito del suo cuore, debole come un respiro. Cominciò a massaggiarla delicatamente.

Il cervello di Rheba era pieno di nebbia, e il ritorno della coscienza fu una fiammella che si accese pian piano in quel nulla dei sensi. Le sue Linee di Potenza lucevano, stimolate da un’energia che proveniva dall’esterno, e questa sensazione la stupì vagamente. Poi la fece gridare di dolore. Con uno scatto s’inarcò, scioccata da quella sofferenza atroce. Un Akhenet più débole sarebbe morto, col sistema nervoso bruciato dalla forza del Bre’n che scorreva più nella mente che nel corpo. Ma ella aveva già sentito quella fiamma arderla una volta, in passato, durante gli ultimi momenti trascorsi su Deva. Anche allora, quando gli scudi d’energia avevano ceduto e i Danzatori del Fuoco erano morti sulle loro postazioni, era stata quella sferzata terribile a scuoterla ed a tenerla viva. Era stato il suo Bre’n a rischiare di ucciderla pur di farla reagire. E come allora ella sopravvisse e riemerse dalla profondità del coma.

Le mani di lui la tennero gentilmente, tremando di compassione per il dolore che le avevano dato. Udì il lieve fischio di Kirtn che le chiedeva scusa e la rassicurava. Il gemito con cui lo abbracciò voleva essere il suo nome e fu un singhiozzo di gioia. Lo baciò con amore, perdutamente, un attimo bambina e l’attimo successivo donna adulta e fremente.

Alle loro spalle ci fu un cigolio secco, il lucchetto rotto cadde a terra, e una risata risuonò nel silenzio rauca come il crepitio di pietra spezzata. Ruotando la torcia, Kirtn vide l’espressione spiacevole di Signore Jal che li stava fissando.

«Sei davvero un bastardo pericoloso quanto stupido, Peloso. Il catenaccio era robustissimo. Sì, sei troppo pericoloso per i miei gusti. Adesso f’lTiri sarà costretto a studiare la tua parte in tutta fretta, visto che dovrà duplicarti sulla scena. E il Loo-chim avrà da questa Azione meno gioia di quanto si aspettava, ma non c’è altro da fare. Goditi queste poche ore con la tua sgualdrinella. Più tardi sarà Signora Kurs a occuparsi di te, sempreché voglia tenerti vivo. Per ora … resterete qui».

Solo allora Kirtn vide che l’individuo aveva un altro lucchetto in mano. Gli scagliò addosso la torcia, ma era troppo tardi: la porta si chiuse, l’enorme catenaccio mandò un clangore e il lucchetto scattò. Poi ci fu solo la risata di Jal che si allontanava verso le scale. Qualche istante dopo Rheba creò un globo luminoso sulle loro teste, e quella rimase l’unica fonte di luce nella cella, perché la torcia era finita all’esterno. I rabbiosi tentativi di Kirtn per forzare la pesantissima porta metallica si rivelarono faticosi quanti mutili.

Un gemito di Rheba lo indusse a tornarle accanto. La ragazza teneva fra le mani Fssa e cercava di avvolgerlo in spire, ma il corpiciattolo non rispondeva alle sue sollecitazioni e giaceva inerte. Alla luce del globo baluginante il volto le appariva quasi inespressivo. Pazientemente depose il serpente al suolo e continuò a tentare di riavvolgerlo in spire, nella posa che assumeva di solito.