Выбрать главу

A metà della scaletta fra i due livelli, la ragazza si volse a fissarlo stringendo le palpebre. Si grattò distrattamente il dorso di una mano, riflettendo che aveva pur sempre la possibilità di manovrare l’energia del grande schermo. Ma con che criterio?

«Esci dal gioco!», la raggiunse dal basso l’invito di Satin. «Salva quel che ti resta del tuo AVO. Jal non è poi un cattivo padrone, e meglio questo che restare senza soldi a Nontondondo».

Rheba la udì a malapena. Stava riflettendo che gli unici a far muovere le loro galassie e i sistemi solari erano i grossi giocatori: in mancanza del colore, forse sarebbe stato il movimento a darle la soluzione.

«Non è più un gioco per te, credimi», la consigliò ancora Satin. Rheba rivolse un’occhiata intensa agli spettatori che la osservavano da oltre la ringhiera, godendosi la sua disfatta. Poi raggiunse il nuovo posto e batté sui tasti il suo codice d’identità.

«Preferisco restare, cara», disse alla ragazza negra.

Lo schermo del terminale la informò che le restava un unico sistema solare. Lo programmò perché compisse rapidi circoli, e quando alzò gli occhi al soffitto-schermo riuscì a vederlo, in un angoletto. Questo le bastava. Una sensazione di calore le scivolò nelle mani, mentre dirigeva flussi d’energia contro il programma automatico del computer … e all’istante i buchi neri e gli uragani spaziali cominciarono a spazzare le luci bianche dei corpi astrali. Non si spostavano più casualmente, come cieche forze della natura, ma davano loro la caccia in un’opera di distruzione dalla quale usciva vincente solo il banco del casinò. I giocatori sembrarono come paralizzati a quello spettacolo, e lo stesso Jal rinunciò a programmare contromisure sulla sua consolle. A Rheba non veniva accreditata alcuna somma, e tuttavia nel tempo di un paio di minuti ogni corpo astrale messo in gara dai partecipanti fu cancellato dallo schermo. Tutti salvo uno, il suo sistema solare.

Molti giocatori avevano speso freneticamente quel che potevano pur di rientrare in gara, facendo apparire qua un pianeta, là una nuova galassia, col solo risultato che un uragano o un buco nero si lanciavano a distruggerli, finché era apparso chiaro che il loro era un inutile spreco di soldi. Ad un tratto quell’immobilità generale venne interpretata dal computer come un ritiro in massa, e una luce arancione invase tutti i terminali: il ciclo era finito. Ed era finito con una sola giocatrice ancora in gara. Sul terminale di Rheba apparve l’autorizzazione a salire al livello più alto, al trono. La reazione della gente era passata da un silenzio sbalordito a una marea di commenti, misti a grida e imprecazioni peraltro comprensibili.

La ragazza non aveva però alcuna intenzione di recitare la parte dello squalo più vorace in un nuovo ciclo di gioco. S’era alzata dalla poltroncina, e cercando Jal con lo sguardo vide con stupore che l’uomo le stava sorridendo acidamente.

Gli fece cenno di scendere. «Avete perso, Mercante Jal. Ora dovete seguirmi alla mia astronave», disse.

Gli spettatori e i giocatori tacquero a quella scena, e pian piano nel salone tornò un certo silenzio. Quando l’uomo si alzò dal trono e fronteggiò la folla si sarebbe sentito cadere uno spillo. Rheba vide centinaia di facce d’ogni colore volgersi una ad una su di lei, e le loro espressioni tese non le piacquero affatto.

«Imbrogliona!», gridò un giocatore del secondo livello. E un altro aggiunse: «La ragazza ha barato!»

Quello sfoggio d’emozioni trovò eco su tutti i gradini della piramide, salvo che all’ultimo. Jal discese lentamente, esibendo un sorrisetto d’ironica condiscendenza, e Rheba cominciò a chiedersi chi la gente considerasse vincitore o perdente. Gli insulti e le imprecazioni diretti a lei fioccavano in tutte le lingue, e fu in quel diluvio d’esclamazioni che Jal venne a fermarlesi davanti. Placò la folla con un gesto.

«Il prezzo che io devo pagare per il tuo imbroglio sono tre settimane di servitù. E sia pure», disse a voce alta. «Ma chi risarcirà tutta questa gente, che per causa tua ha perso un bel po’ di denaro?»

Intorno alla ragazza i commenti ringhiosi salirono come un’onda di marea. Deliberatamente ella li ignorò, fissando l’uomo negli occhi.

«Prima voi, Mercante Jal. Io vi seguo», disse, accennando verso l’uscita.

«Senza nessuno che ti guardi le spalle? Pessima tattica, ragazza».

«Avere alle spalle voi sarebbe peggio. Muovetevi».

Jal scosse la testa con un sorrisetto e si avviò nella ressa, aprendo un sentiero nel quale Rheba s’insinuò a fatica. I frequentatori del casinò si stringevano attorno a loro opponendo una sorta di resistenza passiva, vicinissima a sfociare in aperta ostilità. A una decina di metri dall’uscita, una donna di pelle grigia con una gran massa di riccioli verdi si parò davanti a loro, e urlò qualcosa in una lingua tutta consonanti. Divertito, Jal tradusse a vantaggio di Rheba una caterva di oscenità, e a denti stretti lei gli fece cenno di proseguire. Ma proprio allora la sconosciuta estrasse di tasca un’arma e gliela puntò addosso, continuando a insultarla con furore.

Rheba fece un balzo di lato, e sollevando un piede sferrò un Calcio che colpì con precisione il polso dell’assalitrice. La pistola volò via e rimbalzò sul pavimento. Come se un invisibile interruttore fosse scattato, la folla dei giocatori imbestialiti si gettò avanti, simile a una bestia con mille teste e bocche urlanti, ed ella vide armi che si agitavano in alto e braccia che si protendevano per agguantarla.

Spaventata corse indietro, e mentre cercava di difendersi alla meglio usò le sue facoltà per risucchiare energia dell’impianto elettrico. Tese le mani alla cieca, sprigionando dalle dita lunghe scintille guizzanti e brucianti. Chi le stava più vicino gridò di dolore, ma quelli che premevano per assalirla erano troppi. Gli uomini che cadevano a terra storditi dalle sue scariche vennero calpestati spietatamente, e gli altri seguitarono ad avanzare camminando sui loro corpi. Qualcuno sparò con un’arma a raggi, e la ragazza vacillò contro il muro sentendosi bruciare una guancia dalla vampata.

Scalciò e si divincolò, colpendo ancora chi le arrivava addosso. Poi uno spintone le fece perdere l’equilibrio e rotolò sul corpo di un uomo disteso sul pavimento. Terrorizzata e gemente cercò di ripararsi la testa con le braccia, chiamando più volte Kirtn con tutto il fiato che aveva in gola. Dalle sue mani scaturivano ancora fiotti d’energia crepitante, che le facevano dolere le dita allo spasimo e bruciavano il caos di gambe e braccia ammucchiato intorno a. lei.

Ad un tratto un richiamo fischiato in linguaggio Bre’n sovrastò il clamore. La ragazza cercò di rispondere, riuscì ad alzarsi e barcollò fra i giocatori che ora si pestavano anche fra loro, anelando a riunirsi col compagno. Un pugno sferrato con forza bestiale la raggiunse alla nuca, mandandola a cadere in ginocchio semistordita, e attraverso il velo scesoie sugli occhi vide apparire Kirtn sulla soglia del locale. Il poderoso Bre’n si lanciò avanti come una furia, togliendo di mezzo i corpi umani che gli sbarravano il passo e scaraventandoli via come fuscelli, e come un ciclone fornito di gambe e braccia si aprì la strada fino a lei. Ma quando vide i lividi e le bruciature sul volto e sulle mani della ragazza, la sua faccia si deformò in una maschera di rabbia spaventosa.

«Brucialo!», urlò. «Brucia questa fogna d’inferno!».

Come se la voce del Bre’n avesse aizzato le più remote e crude emozioni di Rheba, sovrastando perfino la volontà di lei, l’energia crepitò dalle sue mani in fasci violentissimi che investirono il soffitto e le arcate del casinò. L’aria si arroventò all’istante.

L’edificio a tre piani che ospitava il Buco Nero era garantito a prova d’incendio, sino all’ultimo tendaggio e bancone da gioco, ma non era stato costruito per resistere alla furia fiammeggiante che poteva essere scatenata da una Danzatrice del Fuoco. In pochi secondi il grande soffitto-schermo divenne un cielo di vampe ardenti, e i corti circuiti divorarono gli apparati elettronici. La folla si frammentò nuovamente in singoli individui, che urlando nella nuvola di fumo acre si precipitarono alle uscite di sicurezza.