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Le saette azzurre delle armi a laser le fioccavano addosso da tutte le direzioni. Erano dozzine di raggi che lei sentiva nascere, balenare nell’aria e incrociarsi follemente nel tentativo di colpirla. Ma la loro potenza mortale si mutava in innocua luce bianca molto prima di raggiungere il suo corpo: le linee di Akhenet della giovane Danzatrice del Fuoco erano padrone d’ogni particella d’energia all’interno dell’anfiteatro, e ne ordinavano il moto, la risonanza, la lunghezza d’onda, con istintiva facilità ed a suo piacimento.

Dopo pochi istanti, stanca di quel gioco, costrinse l’energia dei laser a tornare indietro potenziata, e le armi delle guardie che le sparavano addosso si fusero nelle loro mani.

La risata del Bre’n dietro di lei era crudele e selvaggia. Come in risposta ad essa la tempesta trasformò la notte esterna in un caos di pioggia e grandine follemente illuminato dai fulmini. La cupola d’energia fu costretta a intensificare il suo potenziale per sostenere l’impatto, e Rheba ne sentì arrivare a sé tanta che le parve di bruciare viva.

Troppa potenza. Scaricala!

Con un grido vacillò avanti, disperatamente tesa a controllarne il flusso e proiettarlo fuori da sé. Dalle sue mani continuava a scaturire il raggio che rombava e distruggeva serpeggiando sulle gradinate. Il palco del Loo-chim era carbonizzato, i metalli fondevano, e l’anfiteatro s’era trasformato nell’interno di una fornace. Sotto la cupola l’aria era quasi irrespirabile, e l’odore della carne bruciata la saturava orribilmente.

Come un animale ferito Rheba gemette, e respinse l’eccesso di particelle energetiche contro la cupola prima d’esserne surclassata. Ma al contrario di lei, lo scudo anti-pioggia non poteva disfarsi dell’energia in sovrappiù, scaricandola altrove. Assalito dai fulmini, portato al massimo di potenza dai suoi automatici, e ora investito anche dalla forza della Danzatrice del Fuoco, il suo sistema elettronico esplose in corti circuiti. All’istante la pioggia fittissima precipitò sulle gradinate, sollevando sbuffi di vapore dal suolo arroventato. Alla luce dei lampi Rheba volse lo sguardo sugli spettatori… e si accorse sgomenta che essi non esistevano più. L’anfiteatro era annerito, e una poltiglia fumante era tutto ciò che restava di migliaia di corpi umani. La scena vuota di quel massacro la lasciò incredula: aveva ridotto in cenere i Signori di Loo, ed ora un Danzatore della Tempesta stava lavando il terreno come per spazzarne via anche il ricordo.

La pioggia si trasformò in gradine, che con un frastuono assordante imbiancò l’anfiteatro deserto. Stordita e ansante Rheba sentì le mani di Kirtn che la guidavano verso la rampa; ma prima di scendere gettò un ultimo sguardo dietro di sé, quasi stentando a credere che l’elegante folla profumata assiepatasi sulla tribune fosse scomparsa. Quale demone s’era scatenato nel suo subconscio? Nel tornare lucida le appariva terribile il pensiero di averli annientati così totalmente, così ferocemente, e un brivido la scosse.

Le sue gambe si piegarono, ma Kirtn la prese in braccio. Per qualche istante lo strinse muta, desiderando la sua vicinanza e nient’altro. Poi lasciò che lui la portasse via in fretta.

Grandine e pioggia avevano reso scivolosa la rampa che scendeva al tunnel, e l’aria era calda. La morte di fuoco non era penetrata a mietere vittime nel sottosuolo, tuttavia il luogo era quasi deserto. Gli schiavi erano fuggiti più all’interno, lasciando dietro di loro solo alcuni feriti che giacevano qua e là, calpestati dalla folla in preda al panico. Kirtn non si fermò a soccorrerli, sapendo che non poteva far niente per loro. L’anfiteatro e il tunnel facevano parte di un incubo, e il suo solo desiderio era di allontanare Rheba da quelle scene di tragedia.

L’arcata che si apriva verso il parco aveva il cancello spalancato, segno che Ilfn e gli altri erano passati da lì, e nei pressi non c’era nessuno. Al di fuori impazzavano il vento e la grandine, e il cielo era una rete di fulmini sotto le nuvole basse e nere. Kirtn si fermò, con un’imprecazione.

Mettimi giù, ce la faccio.

Va bene. Ma qui fuori è un inferno.

Lasciò la ragazza coi piedi a terra e la guardò negli occhi per accertarsi delle sue condizioni. Poi la prese per mano, e insieme corsero fra le piante del parco flagellate dalla bufera. L’unica luce era quella dei lampi, e il terribile crepitare di quelle scariche elettriche li spaventò. Rheba on aveva mai visto una tempesta simile.

«Lheket è fuori controllo!», gridò. Ma all’istante capì perché Kirtn stava correndo tanto: Ilfn aveva bisogno di loro.

Anche il cancello d’uscita in fondo al parco era spalancato, e qui giunti poterono vedere che per le strade della città la rivolta infuriava più del previsto. Sotto le forze della natura scatenate, gli schiavi stavano ripagando le sofferenze inflitte dai loro padroni con una moneta ancora più spietata, e Rheba fu quasi grata alle tenebre che le celavano la vista delle scene più violente. La centrale elettrica di Imperiapolis doveva essere andata fuori uso, perché tutti gli edifici erano al buio. L’oscurità e la morte camminavano per mano quella notte, nella capitale del pianeta Loo.

Un gruppo di uomini, sbucò da una traversa davanti a loro, e la luce di un lampo rivelò i loro atteggiamenti stravolti e selvaggi. Non era possibile capire se fossero Loos o schiavi, ma quando si gettarono loro addosso Kirtn dovette lottare. Il Bre’n colpì alla cieca a destra e a sinistra, scagliando gli avversari a terra con pugni simili a mazzate. Le loro grida feroci divennero gemiti di sgomento nello scrosciare della pioggia, ma quello di Kirtn era un ruggito cupo.

Quando si fu aperto la strada, afferrò Rheba e la costrinse a correre lungo un viale alberato. In quel momento un fulmine colpì un edificio alla loro sinistra, e dal suo interno si levarono fiamme. Sbalorditi si accorsero che le scariche elettriche si facevano ancor più intense, e sembravano collegare la città alle nubi sovrastanti con migliaia di dita infuocate. L’aria era satura dell’odore di ozono, il rumore si fece assordante, e i due dovettero rifugiarsi spaventati sotto l’arco di un portone.

Ma qualche minuto più tardi, mentre Rheba ansimava col volto schiacciato contro una spalla del compagno, d’improvviso i fulmini si placarono e la pioggia cessò. Nella strada c’era l’acqua alta che traboccava dalle fogne intasate, ma nel cielo rimase solo un vento freddo che prese a trascinar via le nuvole. La tempesta chiamata da Lheket era finita.

Nel tornare all’aperto Rheba si chiese se quella calma degli elementi fosse dovuta alla morte del giovinetto. Rifiutava di crederlo, ma quel pensiero le riempì gli occhi di lacrime, e sapeva che se avesse guardato Kirtn avrebbe visto lo stesso timore sul suo volto. La mano di lui la indusse a camminare, e inzuppata e stanca si avviò al suo fianco. In molti luoghi si levavano al cielo i bagliori degli incendi, mentre le strade erano canaloni di tenebra dai toni sanguigni. Il puzzo di bruciato e il fumo si fecero più. intensi.

In periferia udirono dietro di loro alcune forti esplosioni, e si volsero a osservare i tetti di Imperiapolis stagliati nel rossore degli incendi. Poco più avanti scorsero infine l’astroporto, e accelerarono l’andatura verso i cancelli secondari dalla parte del mare.

Il terminale era stato colpito dai fulmini e stava bruciando, e colonne di fumo si levavano da quasi tutte le astronavi che videro in sosta sulle piste principali. Appena entrati su quella adibita a deposito dovettero aggirare un vecchio mercantile interplanetario che s’era squarciato in due, fra le cui lamiere i cavi spezzati mandavano scintille elettriche. Più oltre due astronavi di piccole dimensioni erano in preda alle fiamme. Kirtn corse fra i relitti dei vascelli in sosta con gli occhi fissi sul Devalon, la cui sagoma lucida di pioggia era visibile più avanti. Ermeticamente chiusa, e difesa dai suoi servomeccanismi perfezionati, l’astronave Senyasi aveva accolto la tempesta con la più completa indifferenza. Rheba e Kirtn si avvicinarono con emozione al suo familiare scafo.