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«Mmmh, smettila», borbottò lui. «Rheba, piantala, altrimenti …» in fondo alla stradicciola erano comparsi alcuni individui. E quello che li guidava era un impiegato del casinò.

«È lei!», gridò l’uomo. «La ragazza bionda col Peloso, la riconosco. È stata lei ad appiccare il fuoco!».

Un’occhiata bastò a Kirtn per riconoscere le loro divise rosse e argento: erano Sorveglianti Yhelle. Avrebbe preferito la polizia locale, che pure agiva con la massima decisione. I Sorveglianti erano invece famigerati perché prima sparavano e poi facevano le domande. E stavano già puntando le armi.

I muscoli d’acciaio del Bre’n si contrassero, mentre spostava la ragazza dietro di sé. Nello stesso tempo Rheba allungò una mano sotto un’ascella del compagno in cerca del fodero della pistola, ma lo trovò vuoto e imprecò fra i denti. Un metro alla loro sinistra il raggio di un laser saettò azzurro contro un bidone della spazzatura, fondendone la plastica con uno sfrigolio.

«Dov’è la tua arma, Kirtn?», ansimò lei.

«Sull’astronave. Non ho chiesto la licenza per girare armato», rispose il compagno. Poi la prese in braccio e cominciò a correre.

Mentre il Bre’n fuggiva con la giovane donna sulle braccia, altri due raggi color lavanda vaporizzarono una pozzanghera e bruciacchiarono la vernice sull’angolo di un edificio. Kirtn svoltò a destra e a sinistra finché ritrovò il lunghissimo viale che portava in periferia, in fondo al quale erano visibili le strutture dell’astroporto e la grande cancellata perimetrale. Al di là di essa c’era una zona franca dove, almeno teoricamente, non avrebbero potuto essere arrestati con facilità. Ma era lontana.

Kirtn continuò a correre con tutta la velocità delle sue robustissime gambe, ma i due Sorveglianti che stavano tenendo loro dietro erano appesantiti solo dalle loro armi, e guadagnavano terreno. Rheba misurò a occhio la distanza che li separava dalla salvezza, e intuì che non ce l’avrebbero fatta.

«C’è una traversa buia, là fra quei due edifici», disse. «Lasciami giù e mi nasconderò. Tu puoi farcela fino allo scalo. Salta sulla prima astronave per Zeta Gata e aspettami là. Io ti raggiungerò».

Lui non rispose né rallentò la corsa. La traversa era ormai vicina, un canalone scuro chiuso fra due alti edifici.

«Kirtn, lasciami! Non puoi farcela, se continui a portarmi!»

La ragazza si divincolò per sfuggire alle sue braccia, ma il Bre’n si limitò a stringere la presa sul suo corpo sottile ringhiandole di star ferma. Lottare con lui era peggio che inutile, e Rheba rinunciò per non rischiare di fargli perdere l’equilibrio.

Altri due raggi azzurrini tagliarono la semioscurità del viale, sotto la pallida luce dei lampioni, e Kirtn fece uno scarto per evitare di esserne sfiorato. Col capo volto all’indietro, Rheba vide che i loro seguitori non si fermavano a prendere la mira più accuratamente per timore d’essere distanziati. Tuttavia sparavano fin troppo bene per i suoi gusti. Avrebbe voluto avere un’arma a raggi, e non tanto per colpirli quanto per farli rallentare.

Le lame di luce mortale zigzagarono sul muro dell’isolato lungo il quale Kirtn stava correndo. Disperata Rheba protese le dita immateriali della sua mente verso quelle scariche, assorbì quanta energia poté e la riflesse indietro verso gli inseguitori.

Una vampa rossa esplose silenziosamente davanti ai due uomini, che per riflesso spararono ancora, e di nuovo la ragazza deviò verso di loro il fuoco dei laser.

Il risultato fu superiore alle sue aspettative, e il lampo che investì i due Sorveglianti li gettò al suolo tramortiti. Ma Rheba non vide nulla di tutto ciò, perché l’esplosione di luce l’aveva abbagliata costringendola a girare il viso contro la spalla del compagno. Per un poco i due proseguirono la fuga senza rendersi conto che gli inseguitori erano stati resi inoffensivi. Il Bre’n ansimava come un mantice, e la ragazza si abbandonava sfinita sulle sue braccia.

A una cinquantina di metri dalla cancellata metallica dall’astroporto, una figura vestita di scuro uscì dall’ombra di un palazzo e attraversò di corsa la strada verso di loro. Kirtn balzò in un’aiuola e aggirò una siepe per evitare l’assalto dell’individuo, ma con le braccia occupate capì che non avrebbe potuto affrontarlo né sfuggirgli.

«Rheba!», rantolò. «Fai qualcosa … ce n’è un altro!»

La giovane donna si soffregò gli occhi ancora abbagliati, stentando a capire dove fossero ì loro inseguitori. Ne vide uno soltanto, che barcollava sul marciapiede duecento metri più indietro. Poi s’accorse di quello che stava sopraggiungendo e cercò di proiettare energia nella sua direzione, ma non riuscì che a produrre un leggero crepitio elettrostatico. Avrebbe dovuto attendere che Kirtn s’avvicinasse di più all’impianto d’illuminazione dell’astroporto, per assorbire energia da qualche cavo.

L’uomo stava correndo sul piazzale buio, e quando si fermò un momento ad agitare le mani ella vide che aveva la pelle azzurrina ed i capelli blu. Per la sorpresa le si mozzò il fiato.

«Jal!», esclamò. «Ma … che diavolo fate qui, voi?»

L’altro si limitò a mostrare le mani per far vedere che non aveva armi, senza rispondere, e poi li seguì a passo svelto. Con un sospiro di sollievo la ragazza lasciò che la scarsa energia di lei assorbita in precedenza si disperdesse nella notte.

Nel terminal dell’astroporto Kirtn imboccò una rampa mobile in salita, attraversò l’angolo di una vasta sala d’attesa con Mercante Jal alle calcagna, e prese lungo un corridoio dalle pareti in plastica verde che conduceva alle piste d’atterraggio secondarie. Cinquecento metri più avanti, di fronte a una porta metallica ermeticamente chiusa, depose finalmente a terra Rheba e appoggiò il palmo di una mano sulla placca luminosa della serratura. La porta si aprì con un lieve sibilo.

Al di là di essa si allungava un corridoio estensibile, la cui estremità opposta era fissata al portello esterno di una piccola astronave, anch’esso chiuso. Appena i tre l’ebbero raggiunto fu Rheba che, fischiando un segnale in linguaggio Bre’n, mise in funzione gli impianti semiautomatici della nave.

«Entrate», mormorò stancamente la ragazza a Jal.

«Kirtn richiuse subito il portello esterno alle loro spalle, e fuori dalla stretta camera di decompressione spinse Rheba fino al posto di pilotaggio, incitandola a darsi da fare. Un indicatore luminoso sopra i pannelli di controllo stava lampeggiando in modo allarmante.

«Abbiamo un raggio addosso!», ringhiò il Bre’n. «Qualcuno ci sta inquadrando con lo scandaglio di un sistema di puntamento d’arma. I Sorveglianti hanno chiamato rinforzi».

«Sdraiatevi», ordinò Rheba, accendendo i motori. «Sarà un decollo violento».

Jal fece appena in tempo a raggiungere una poltroncina, abbassandola all’indietro, che il ronzio dell’apparato propulsivo fece vibrare lo scafo. L’uomo si distese nell’incavo dell’imbottitura sagomata e strinse la cintura di sicurezza, mentre all’altro lato della piccola plancia Kirtn faceva lo stesso. Poi ci fu la forte scossa in cui il Devalon si staccò dal suolo e dal corridoio estensibile fissato al suo esterno. L’accelerazione fu subito così violenta che Jal rantolò, e l’aria gli uscì dai polmoni compressi con forza. Per qualche secondo l’uomo lottò contro il senso di soffocazione e la nausea, poi perse i sensi.

Kirtn non era altrettanto sensibile agli effetti dell’accelerazione, ma stentava a respirare. Ciò malgrado era ben felice di quella sofferenza, perché un’occhiata all’altimetro gli confermò che Rheba ci stava dando dentro senza risparmiare carburante. La spia luminosa s’era per il momento spenta.

La ragazza sedeva al posto di pilotaggio con tutta calma, ancora completamente a suo agio sotto lo sforzo che schiacciava invece gli altri due. Il fatto che le Senyasi potessero sopportare accelerazioni di quel genere meglio di qualunque altro umano o umanoide, era un vantaggio che ella aveva sfruttato raramente, e solo quand’era stato necessario compiere atterraggi bruschi per risparmiare carburante. Il Bre’n cercò di calcolare quanti minuti mancavano prima di poter passare in overdrive, e farla finita con quel tormento, ma gliene mancava la lucidità.