- Vi confesso, messere, che sono un po' confuso, - disse Venafro.
- Anche a me sono oscure molte cose, che vado e andrò indagando nei miei lavori. Per ora sono approdato a questa conclusione, in cui credo più che non tengo per dimostrata: ogni tipo di pensiero segue una "sua" logica, ogni comunità di genti, ogni tempo, ogni cultura, ha un "suo" tipo di pensiero. Il fine che mi propongo è di mostrare che tutti sono validi anche se in contraddizione tra di loro.
Intanto era scesa la sera e già i servi accendevano i lumi e preparavano ogni cosa per il pranzo. Qualcuno taceva pensieroso, molti interrogavano il filosofo sul suo viaggio, sul processo d'eresia, sulla lontana Parigi misteriosa. Il giovane narrò come sostenne in un libro le sue tesi sulla logica e come queste furono discusse in un'aula dello studio di Parigi e giudicate eretiche perché trascinavano nel crollo della logica, così fu detto, tutta quanta la teologia ed intaccavano le verità della fede. Invano egli aveva sostenuto che non ne derivava la falsità della dottrina cristiana, ma solo dell'affermazione che la dottrina cristiana è l'unica vera.
Raccontò che a questo punto maestri ed abati si alzarono gridando che in tal caso si dovrebbe ammettere che anche un'altra religione può essere "vera", persino quella di Maometto. E poiché proprio questa era la conseguenza a cui voleva giungere, qui il filosofo, prudentemente, aveva taciuto, fingendo d'esser sorpreso lui stesso dell'audacia di tale affermazione. E questa simulazione lo salvò. Guardò i maestri con aria stupita e innocente, e quelli giudicarono che egli non avesse previsto a quali gravi conseguenze avrebbe portato il suo pensiero e non ritennero necessario imprigionarlo mentre veniva istruito il processo.
Quella notte stessa il filosofo aveva lasciato segretamente Parigi.
Voleva scendere in Italia, che era la sua terra d'origine e in cui voleva continuare i suoi studi. Aveva soggiornato per circa un mese nel convento di Sant'Orso, dove cibo e ricovero gli erano offerti in abbondanza. Ma preoccupato di nascondere la sua identità e i suoi studi che avrebbero parlato per lui, aveva deciso di partire quel mattino, prima dell'alba, diretto alla pianura che placida si stende alla foce del fiume. Qui s'era ad un tratto smarrito nella nebbia e ritrovato su una strada che saliva fortemente, e ch'egli aveva seguita sperando che portasse in qualche luogo ove trovar rifugio. Così era giunto a quel castello.
- E qui potete rimanere quanto vi piace, - disse madonna Bianca, che aveva seguito il racconto coi grandi occhi pensosi posati sul giovane filosofo. Ed egli se n'era accorto certamente, poiché la fissava spesso parlando, col suo sguardo azzurro senza sorriso.
Gli stessi discorsi continuarono durante la cena. Il duca parlò assai poco, un po' perché non s'interessava di filosofia, un po' perché era occupatissimo a seguire gli sguardi di madonna, che sembravano fuggire sempre nella stessa direzione e incontrarsi muti con quelli dell'ospite, che altrettanto muti parlavano con lei. Il duca era di cattivo umore.
Terminata la cena, quando la conversazione languì, la compagnia si sciolse. Il filosofo fu accompagnato alla sua stanza, il duca nella sua, sorvegliata dagli abati. Venafro salì nella torre a scrivere il suo erbario.
La marchesa, nella sua stanza, sedeva dinanzi ad uno specchio e si scioglieva pensosamente la lunga chioma nera.
Un colpo deciso fu bussato alla sua porta. S'alzò di scatto, e già sapeva chi era. La mano sul chiavistello tremava un poco.
- Sono venuto a raccontarvi la favola di Isotta, disse il filosofo.
- Non siete stanco, signore? - Dopo riposerò, - disse l'uomo chiudendo la porta alle sue spalle.
Dopo la lunga notte invernale l'alba si levò su un mondo affondato nella neve. La nebbia non c'era più, aveva lasciato il posto ad una neve fitta e larga che, silenziosamente aveva costruito cumuli morbidi e bianchi su tutte le cose. Il filosofo la sentì, svegliandosi, prima ancora di vederla, la intuì dalla luce lattea che entrava dalla stretta finestra e dall'immenso silenzio del mondo. Una prepotente voglia di latte caldo lo spinse ad alzarsi.
I camini erano ancora spenti nel castello addormentato. Il filosofo si diresse dove sentiva deboli rumori di vita; scese una lunga scala che diveniva sempre più stretta ed oscura, s'inoltrò in un corridoio pure stretto in cui circolava un tepore profumato di fumo e di latte e si ritrovò in una immensa cucina illuminata in parte da un gran fuoco che ardeva nel camino. Appeso ad una robusta catena bolliva un paiolo pieno di latte e attorno ad esso erano affaccendati alcuni garzoni.
- Buon giorno, - disse Venafro accennando ad alzarsi dalla panca su cui sedeva a cavalcioni. Allora il filosofo scorse tutto un lato della cucina che, per essere troppo scarsamente illuminato dal camino, prima non aveva visto. Infiniti paioli e padelle di rame d'ogni misura pendevano a robusti ganci infitti nella parete; un lungo pesantissimo tavolo d'abete correva lungo la medesima parete affiancato da due panche altrettanto lunghe. Sulla panca esterna sedeva Venafro e beveva latte caldo da una scodella. Il filosofo gli si sedette accanto.
- Volete latte? - gli chiese Venafro, e poi, dopo aver fatto cenno ad un garzone di servire l'ospite, disse: - Ma allora cade anche il principio che, data una certa premessa, deriva una certa conseguenza.
Il filosofo rifletté un momento, poi rispose:
- Non dico che cada; può essere vero, come può anche essere vero il contrario. Per esempio, continuò il filosofo indicando la più grande delle padelle appese al muro, una padella dal manico lunghissimo che mandava bagliori rossastri nel buio, - un robusto gancio regge quella padella, quindi la padella non cade: questo dice il principio di causalità, non è vero? Ebbene siamo sicuri che la padella non cada? - A questo punto si udì un fruscio nel buio, e il filosofo s'avvide che proprio sotto la padella stava seduto sulla panca uno degli abati; stava lì un po' rannicchiato, forse perché soffriva di freddo che, come ognun sa, è una malattia del sangue. Il filosofo accennò un saluto distratto in direzione di colui che prima per il buio non aveva scorto, e proseguì: - Io dico che può accadere che cada, anche se il gancio è robusto; per qual motivo non so, ma può accadere che cada. - Le sue parole furono seguite da un altro più forte fruscio, e i due uomini distinsero nella penombra la sagoma dell'abate che si alzava e, senza salutare, se ne usciva dalla cucina.
- Ma chi è? - chiese il filosofo a Venafro.
- L'abate Celorio, un vecchietto malato di freddo. Se ne sta sempre qui nella cucina perché questo è il camino più grande del castello ed è sempre acceso, anche di notte. E siede in quel punto, proprio sotto la padella maggiore perché lì gli arriva più diretto il calore del fuoco. Ma ditemi, in questo caso, se la padella cadesse ci sarebbe una causa, una causa che forse noi non conosciamo. Quindi il principio di causalità è salvo.
- Ma non nella proposizione che io dissi, - obiettò il filosofo, - che in tal caso dovrebbe dirsi così: benché la padella sia sorretta da un robusto gancio, essa cade. E quale ne sarebbe la causa? - Già, quale ne sarebbe la causa? - Ma il diavolo, monsignore! - disse il filosofo ridendo. - È sempre il diavolo, quando succede qualcosa che secondo la nostra logica non si spiega! I garzoni, sentendo nominare il diavolo avevano interrotto il loro lavoro, ed ora guardavano sorpresi il filosofo.
- E poi il diavolo, - continuò questi sorridendo, - non alberga forse volentieri nei camini? Come in ogni luogo ove guizzano fiamme. E non isolati, ma a gruppi; smuovete la cenere e ne saltano fuori a dozzine; gettate acqua sul fuoco, e li sentirete stridere di rabbia; e tanto più inviperiti, se nei pressi del camino c'è un uomo di chiesa.