- Mi sembra un'esagerazione, - replicò dolcemente la marchesa. - Quei ragazzi devono aver presa sul serio una cosa detta per scherzo; che diavoli volete che ci siano nel camino? Son tutte chiacchiere...
- Diavoli o non diavoli, non possiamo ridurci a mangiare pane e formaggio per tutto il resto della nostra vita, - disse il duca. Quindi, se è per tranquillizzare quei ragazzi e mangiare meglio, faremo esorcizzare il camino. E chi è che fa queste cose? - Nessuno degli abati presenti possedeva il dono di saper fare esorcismi e fu deciso allora di chiamare la saggia pretessa.
- La saggia pretessa? - chiese il duca; - e chi è?
- La più grande esorcista della valle, - disse la marchesa. - Vive in un casolare chiamato "Fin du monde", non molto lontano di qui, ritirata in gran solitudine. Si dice che possegga molti libri e passi giorno e notte a studiarli. Si dice anche che discenda da una antica stirpe di esorcisti. Non so perché la chiamano pretessa, forse è la vedova di un prete.
- Come dite? La vedova di un prete? Ma i preti non hanno mai vedove, intervenne vivacemente l'abate Foscolo. E aggiunse severamente: State attenta, madonna, certe cose non si dicono neppure per scherzo. - La marchesa, che l'aveva detto seriamente, lo guardò sollevando le sopracciglia, e tacque.
Parlò invece madonna Camilla: - E come si fa a farla venire? La saggia pretessa non va a cavallo, e con queste strade sarà impossibile mandare una carrozza.
- Una portantina, si mandi una portantina. Avremo bene una portantina da qualche parte? No? - disse il duca.
- Monsignore, - intervenne la marchesa, - la portantina c'è e ci sono anche i portatori, ma affonderanno nella neve fino al ventre. Non permetterò mai che né i miei servi né altri affrontino questo rischio e questa fatica. Meglio tenerci i diavoli nel camino... almeno fino al disgelo.
Di fronte al tono deciso della marchesa il duca tacque, pur chiedendosi angosciato quando mai sarebbe venuto il disgelo in quelle montagne incrostate di ghiaccio e quanti giorni di tristezza gastronomica gli stessero ancora innanzi.
- Faremo una slitta, - disse Venafro, - una piccola portantina a slitta con ciò che rimane della slitta dell'abate Nevoso. E andrò io stesso a prendere la saggia pretessa.
Tutti accolsero di buon grado la proposta di Venafro. Furono chiamati due fabbri e in capo a due giorni la portantina a slitta, una grossa cesta montata sui pattini della slitta a molla, fu messa al traino del bel Rabano. Venafro accarezzava il collo del suo cavallo e gli parlava sottovoce pregandolo che non si offendesse vedendosi usato come un cavallo da traino e promettendogli che ciò non accadrebbe mai più.
Rabano volgeva il lungo collo crinito a guardare quella cosa strana che gli stava agganciata ai finimenti e poi guardava negli occhi il suo padrone. Partirono di buon mattino e tutta la corte li salutò augurando buon viaggio. Rabano teneva un trotto veloce, agile e diligente. La marchesa li guardava con un'ombra negli occhi da una finestra della torre.
Fu lei la prima a scorgerli sulla via del ritorno. Agitò un grande velo bianco da quella stessa finestra da cui li aveva visti partire.
Venafro rispose al saluto guardando e sorridendo verso l'alto. Rabano procedeva, questa volta, al piccolo trotto: la slitta apparve subito incredibilmente carica. Servi e scudieri furono lesti ad accorrere, il duca stesso aiutò la saggia pretessa a scendere dalla portantina.
Scesa la pretessa, la slitta apparve ancor più carica di prima: era ingombra infatti di una montagna di ceste e di fagotti, che i servi scaricarono delicatamente e portarono nell'atrio del castello.
L'ultimo, ben avvolto in uno scialle di lana, non era un fagotto, ma un gatto. I servi staccarono la slitta dal cavallo e Venafro partì al galoppo sul suo bel Rabano, fece più volte il giro del cortile e poi fu visto galoppare, abbandonate le briglie, abbracciato il collo stesso del cavallo, velocissimo verso la doppia cinta di mura e saltarle una dopo l'altra come fossero state cespugli. La marchesa sentì un brivido correrle per la schiena, quasi fosse stata lei, sulla nera groppa di Rabano.
La saggia pretessa fu accolta nel castello con tutti gli onori, ristorata con latte caldo e panini al miele, e più tardi condotta nella cucina. Il gatto, che si rivelò per un soriano quasi gigantesco, dall'aria pigra e sussiegosa, la seguiva con passo solenne. I servi si ritirarono; si ritirarono anche gli abati, perché non era chiaro se ciò che lì si sarebbe fatto si conciliava con gli insegnamenti della Chiesa: si ritirarono anche le dame della marchesa temendo che nella cucina si sarebbero svolte scene infernali. Rimasero solo la marchesa, il duca e Venafro. Il duca parlò per primo: - Vedete, signora, - disse indicando il camino, - si dice che vi siano dei diavoli.
- "Si dice" non dice niente, - rispose la pretessa guardando severamente il duca. - O ci sono, o non ci sono. In primo luogo bisogna accertare questo. - Rovistò a lungo in una cesta che aveva portata con sé e ne trasse una lunga cappa intessuta di piume, che dal capo, cui si adattava con una specie di cappuccio, scendeva fino ai piedi avvolgendo nella sua ampiezza il robusto corpo della pretessa e nascondendone i capelli fulvi e crespi. Poi trasse dalla cesta una ciotola di terra e un'ampolla di vetro che conteneva, visibilmente, dell'olio. Poi da un'altra ampolla, il cui contenuto restava misterioso perché il vetro era accuratamente affumicato, versò nella ciotola una specie di acqua chiara. Si accostò al camino, in cui il fuoco era spento, ma le braci ardevano sotto la cenere, mosse dolcemente la ciotola a lungo, in gran silenzio.
- Ci sono, - mormorò, - oh se ci sono! - e mostrò le gocce d'olio che si erano disfatte tutte e tre. Poi improvvisamente gettò il contenuto della ciotola sulla cenere, e tra fumo e scoppiettii si levarono lingue di fuoco e faville a migliaia mentre le braci stridevano e crepitavano.
- Avete visto se ci sono? - si rivolse ai presenti. - E tutti diavoli di prim'ordine. - I presenti guardavano in silenzio. - Ora bisognerà scacciarli. Attizzate il fuoco, aggiungete legna di abete e lasciatemi sola. Io stessa vi chiamerò quando sarà il momento perché possiate vederli con i vostri occhi. - Il duca e Venafro fecero quanto la pretessa aveva ordinato, poi tutti uscirono.
Trafficò a lungo nella cucina deserta e quando richiamò i signori la scena era nuova e sinistra. Tutti i lumi erano stati spenti e la stanza era illuminata solo dal fuoco che ardeva nel camino. Ovunque erano state poste croci fatte con ramoscelli d'ulivo; a pochi passi dalla soglia era stata tracciata una linea che la pretessa indicò agli altri ordinando loro di non oltrepassarla per nessuna ragione al mondo; lei stessa, interamente avvolta nel mantello di piume, stava nel mezzo di un circolo disegnato col carbone sul pavimento e teneva nella sinistra un turibolo che andava agitando e da cui proveniva un forte odore di incenso: nella destra teneva un aspersorio e in terra stava la ciotola. Sulla superficie del liquido galleggiavano quattro foglioline d'ulivo in forma di croce. La grande tavola della cucina era ingombra di ampolle diverse; in mezzo alle ampolle, statuario, stava il gatto della pretessa. Sulla soglia i signori, raccolti in gruppo, guardavano in silenzio. Nel camino crepitava un gran fuoco d'abete.
La pretessa s'inginocchiò nel suo circolo e parve pregare o meditare a lungo. Poi immerse l'aspersorio nella ciotola, si alzò e gridò con voce tonante: - Gabbaal, Sabbaal, Mitternaal, abitanti delle tenebre, vi ordino di andarvene! - e così dicendo spruzzò le fiamme con l'aspersorio. Quelle crepitarono, e si alzarono fino alla sommità della cappa in un nugolo di scintille.
Poi nuovamente la pretessa si inginocchiò, meditò, intinse l'aspersorio, si levò, spruzzò le fiamme e gridò: - Veddaal, Sindaal, Babeldaal, figli delle tenebre, vi ordino di andarvene! - nuovo crepitio, nuove fiamme fino alla sommità della cappa e nuova sventagliata di faville. Infine la pretessa si alzò lasciando in terra il turibolo, sollevò con le due mani la ciotola ancora piena di liquido al di sopra della testa e disse con voce terribile: - Anche tu, chiunque tu sia, signore delle tenebre, con tutti i tuoi figli e i tuoi nipoti, per il potere che il cerchio magico mi dà, ti ordino di lasciare per sempre questo camino e questa casa! - così dicendo scagliò la ciotola nel focolare. Le fiamme si alzarono altissime rombando, le scintille crepitarono in tutte le direzioni e un fumo acre riempì la cucina. In quell'attimo a tutti scorse un brivido per la schiena, e rimasero a guardare affascinati la scena avvolta di fumo, la pretessa immobile in mezzo alla cucina con le braccia alzate, le fiamme che salivano altissime nel camino crepitando in una miriade di scintille. Solo quando il fumo si fu dissipato e le fiamme ritornarono alle dimensioni solite, la pretessa si volse verso la porta e disse: - È finito, signori. Sono fuggiti fino all'ultimo. - Rimise le ampolle, le croci di ulivo e il turibolo nella cesta e s'avviò verso la porta seguita dal suo grosso gatto, spettatore e forse partecipe silenzioso di quel grande mistero.