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Vi raccomanda di averne cura e vi fa sapere che verrà a vederlo ogni tanto, - e così dicendo Venafro cercava di difendere i suoi baffi girando la testa dall'altra parte.

I regali della saggia pretessa piacquero molto; a qualcuno piacquero più gli scacchi, a qualcun altro più il bambino. A madonna Maravì piacque soprattutto Goffredo da Salerno. Anzi non l'aveva ancora visto che già ne era innamorata. L'aveva sentito parlare e aveva riconosciuto la lingua elegante che parlano a Salerno le persone di cultura. Quando poi lo vide, la sua persona le piacque ancor più che la sua parlata.

Nel complesso Cicco andava d'accordo con tutti, tranne con Mirò: i due litigavano di cuore come litigano spesso le persone che si amano ma non vogliono capirlo. Così si rubavano le pigne da giuocare e i panini al miele che madonna Camilla faceva cuocere apposta per loro; talvolta addirittura si picchiavano e poi Mirò si nascondeva a consumare in silenzio il suo dolore e Cicco correva piangendo dalla marchesa o da qualche damigella o dallo stesso Venafro per cui aveva una gran predilezione.

L'unico che ebbe a ridire sulla presenza di Cicco fu l'abate Foscolo, prete saccente e autoritario che vedeva nel bambino un figlio del peccato.

- Marchesa, - disse un giorno affrontando l'argomento, - non potete tenere in casa vostra uno che non sapete chi sia.

- Perché? - chiese madonna Bianca.

- Perché non sapete chi sia.

- A maggior ragione lo tengo, - rispose la marchesa, - pensate che potrebbe essere un principe, anzi dev'essere un principe di sicuro; oppure il figlio del papa, oppure il figlio di qualche santo importante. - L'abate Foscolo interruppe questo discorso da cui capiva di non poter ricavare molto. Si limitò a guardare il bambino con occhi malevoli, ma lui non se ne accorse perché non aveva nessun motivo di guardare l'abate Foscolo. Accadde anzi ben presto una cosa incredibile: Cicco e Mirò diventarono amici: giuocavano insieme con le pigne e mangiavano insieme i pasticcini di madonna Camilla e tale fu il loro rapporto che divennero ben presto inseparabili.

Era il mese di febbraio e il sole cominciava a riscaldare la neve. La marchesa riprese la sua antica abitudine di uscire a cavallo nelle ore tiepide del pomeriggio e Venafro le era spesso compagno in queste cavalcate. La marchesa sceglieva di preferenza il suo cavallo Ippomele e Venafro doveva trattenere con la briglia il focoso Rabano perché portava seduto davanti a sé, ben avvolto in uno scialle di lana o in una coperta di pelliccia, il piccolo Cicco, mentre la marchesa portava sul suo cavallo il piccolissimo Mirò. Ma intanto un dramma maturava tra le mura del castello.

Un dramma d'amore. S'è già detto che madonna Maravì aveva provato un tuffo al cuore sentendo la parlata di Goffredo da Salerno. E per tutta la sera era rimasta ad ascoltarlo immobile e muta mentre lui, durante la cena e nelle ore che precedevano la notte, discorreva col duca il quale era particolarmente interessato a certe iniziative chirurgiche di messer Goffredo, quelle appunto in grazia delle quali s'era buscato l'accusa di eresia. Si trattava di trapianti. Maestro Goffredo aveva teorizzato che, quando un organo del corpo si dimostra guasto e non più recuperabile con le usuali cure, vuoi di erbe, vuoi di unguenti, si può ritagliare via dalla sua naturale sede e sostituire con un analogo organo d'altro animale. All'uopo egli aveva allevato nella sua casa di Salerno alcune bertucce, che non erano, a suo dire, molto diverse dall'umana specie. Aveva già fatto esperimenti trasferendo organi da una bertuccia all'altra e qualche volta, non molto spesso a voler dire il vero, il trapianto era riuscito. Adesso era giunto al punto che si tentasse qualche operazione sul corpo dell'uomo, ed egli aveva già trovato in Salerno un vecchio signore senza denti a cui aveva disegnato di trapiantare tutti i denti d'una scimmia con la mascella intera e forse anche il palato. Ma la sua teoria aveva destato scandalo. Non per il rischio, tutt'altro che trascurabile, che il paziente morisse durante il trapianto, né per il dolore che egli avrebbe patito durante l'operazione, il quale per gli uomini di scienza non suole essere cosa rilevante né offende i principi della fede religiosa: i dotti signori della scuola avevano sentenziato che ciò offendeva l'umana dignità poiché era connubio d'uomo e d'animale, né più si sarebbe potuto chiamare uomo colui che fosse vissuto con un organo d'animale.

Mentre Goffredo da Salerno così le sue calamità andava raccontando, due persone particolarmente, tra l'attenzione generale, pendevano dalle sue labbra: il duca che, soffrendo molto e da molto tempo di una acuta colite, covava in fondo al cuore il desiderio di possedere un intestino nuovo, tutto o in parte, che gli permettesse di mangiare e di affrontare gli spifferi d aria senza dover temere sempre terribili conseguenze; e madonna Maravì, che s'era accorta quale bella bocca messer Goffredo avesse nella barba, ed era tanto assorta a guardar quella, che per tutta la sera si dimenticò di scuotere i riccioli ramati.

Quella notte, mentre nel castello tutti, chi più chi meno, dormivano sepolti nel gran silenzio, il duca e madonna Maravì si rigiravano insonni tra le coltri rivolgendo nella mente gran pensieri. Pensieri assai diversi in verità. Il duca, ormai conquistato all'idea di possedere un intestino nuovo, valutava i rischi di una simile operazione, e si domandava se era il caso che ne parlasse l'indomani con messer Goffredo. Ma in fondo al cuore lo rodeva un pensiero tetro, che avvelenava ogni speranza: da quelle parti non s'era mai vista una scimmia. Madonna Maravì invece pensava quale vestito avrebbe potuto indossare per attirare l'attenzione di quell'uomo che, per dire il vero, benché si fosse dimostrato assai benigno e garbato e il suo viso non disdegnasse di sorridere con gli occhi e con la bocca, tuttavia le pareva un pochino riservato, e forse anche ritroso.

Poco prima dell'alba di quella notte insonne i due personaggi avevano preso le loro decisioni: il duca aveva deciso di aspettare qualche giorno prima di parlare al chirurgo di quella sua difficile intenzione. E finalmente si addormentò. Madonna Maravì invece aveva deciso di dare avvio subito, quel giorno stesso, alla sua iniziativa e di indossare qualche abito che non potesse passare inosservato. E già prima dell'alba era in piedi, inginocchiata per terra, ed estraeva da una grande cassa i suoi abiti più belli.

Quel giorno stesso la marchesa scelse una saletta, non grandissima, ma ampia tuttavia, e fece dipingere sul pavimento una bella scacchiera a campi bianchi e neri. Era una saletta quadrata, con due belle finestre incavate nella parete del castello, che guardavano proprio sulla corte. Nello spessore del muro ai lati delle finestre erano poste delle panche di legno ricoperte di morbidi cuscini, dove la marchesa amava sedere a leggere o ricamare o conversare con le sue donzelle al sole del tramonto, perché quelle finestre volgevano ad occidente. Fu proprio in quella saletta che madonna Maravì apparve, poco prima dell'ora di cena, vestita dell'abito che aveva scelto per andare alla sua guerra. Era un abito di raso rosso ciliegia, bordato allo scollo e alle maniche, che terminavano assai ampie ed aperte, di un sottile giro di candido ermellino; di candido ermellino era bordato anche l'orlo in fondo alla veste, che un poco sollevata sul davanti sì da mostrare le scarpine dello stesso raso del vestito e scoprire persino fino al malleolo la caviglia, scendeva dietro in un lungo strascico serpeggiante. Il rosso dell'abito accentuava il rosso dei capelli e il candore del collo e del seno che generosamente appariva dall'ampia scollatura.

Quando madonna Maravì entrò nella saletta fu come se entrasse una fiammata: il duca, che stava giuocando agli scacchi con l'abate Mistral e proprio allora spostava un cavallo d'ebano in uno dei campi neri, non si sa come, lo lasciò cadere e ci inciampò dentro. L'abate Mistral strinse leggermente gli occhi grigi per meglio vedere e dal gruppo degli altri abati partì un leggero sibilo: doveva essere stato l'abate Leonzio, ormai noto al castello per la sua propensione per le donne, vuoi dame vuoi serventi. Messer Goffredo da Salerno si inchinò leggermente verso la giovane donna e sorrise.