Il bambino lo guardò dubbioso, poi, di fronte a un nuovo tentativo dell'animale di mordergli il viso, allentò la stretta e lo lasciò fuggire.
Tornarono insieme al castello, un po' tristi tutti e due. Frattanto le damigelle, mobilitate dalla marchesa, avevano cucito una sagoma di pelliccia nera, con collo, zampe e coda, e l'avevano riempita di paglia. Stavano proprio allora attaccando una palla della stessa pelliccia con due fili di paglia cuciti sul davanti, che voleva essere la testa con i suoi baffi. La diedero al bambino con grandi feste, mentre Venafro sorrideva dubbioso. Cicco prese tra le braccia il gatto di pelliccia guardandolo con aria perplessa; ci strofinò contro una guancia e stette a vedere che cosa succedeva. Non successe niente. Con Mirò invece qualcosa sarebbe successo. Ma poi sembrò pensare che un gatto di pelliccia era sempre meglio che niente, e se ne andò tenendolo tra le braccia.
Il favonio però continuava, Mirò non tornava e Cicco era triste. Anche molti uomini e donne erano tristi e nervosi mentre il bosco sembrava scuotersi baldanzoso e dispettoso nella precoce primavera. E i larici già si riempivano di pennacchi rosati.
Allora Venafro decise di insegnare a Cicco a suonare il flauto. Non fu un'impresa difficile, una volta superata la prima difficoltà tecnica di disporre le dita nei buchi; anzi mai allievo si dimostrò così diligente. Sedevano a lungo insieme, maestro e allievo, mentre la neve aveva ripreso a cadere sul mondo ritornato bianco e grigio. La marchesa spesso stava a guardarli con il viso nel cavo delle mani, i gomiti appoggiati alle ginocchia. In capo a pochi giorni Cicco sapeva suonare un'intera pastorella.
E suonava quasi tutto il giorno girando per il castello o seduto sulla panca nella corte, quando non era troppo freddo, e imparando sempre nuove musiche e sempre meglio. Venafro non avrebbe potuto avere scolaro migliore. Il giorno che ricomparve Mirò, magro, spelacchiato, e con segni visibili di risse notturne, Cicco fu il primo a vederlo e non poté trattenere un grido. Ma poi, invece di slanciarglisi incontro, prese il suo flauto e incominciò a suonare una gavotta: il gatto lo guardava attonito e ammirato avvicinarsi a lui solenne accennando un piccolo passo di danza. Fecero la pace; ma Cicco ormai sapeva suonare il flauto.
Un giorno di fine marzo, che la neve era cessata già da una settimana e la strada della valle era quasi completamente sgombra, giunse al castello, inaspettata, la pretessa. Fu accolta con grandi feste da tutti, in particolare dalla marchesa che subito le diede notizie di Cicco. La pretessa era venuta a piedi per vederlo, senza tutte le sue solite ceste ma con un unico cestino in cui c'erano noci, nocciole, e una grande focaccia impastata con miele e ricotta e tutta cosparsa di semi di finocchio. Tutti regali per Cicco.
Ma nella confusione Cicco era scomparso. Qualcuno credette di averlo visto affacciarsi nel salone mentre tutti attorniavano la pretessa incalzandola di domande. Ma poi più nessuno l'aveva visto. Lo cercarono dappertutto, invano. Infine, poiché la pretessa era stanca, sedettero nel salone a conversare mentre lei si ristorava. Era un po' contrariata dalla scomparsa del bambino, e delusa, perché si aspettava delle grandi feste da lui; tanto più che gli portava tutti quei regali. Mentre conversava con la marchesa, Venafro il duca e messer Goffredo, ecco che si udì dietro il muro a lato del camino, come da una perfetta cassa di risonanza, un piccolo suono di flauto che, dopo aver tentato note diverse, si lanciava nel più lieto saltarello che mai castello avesse udito: il buco nel muro che era servito un tempo come deposito di legna da ardere ed era stato poi chiuso dalla parte del salone con un assito intonacato a calce che lo rendeva invisibile, ampliava e approfondiva il suono del piccolo flauto dandogli vigore e potenza. Tutti tacquero sorridendo. Quando il saltarello fu finito si videro uscire dal camino, scivolando davanti alle fiamme, Cicco, il gatto Mirò e il gatto di pezza, tutti neri di fuliggine e bianchi di cenere. La pretessa prese in braccio il bambino e lo baciò, poi tutti e tre, bambino, gatto vero e gatto finto furono messi in una tinozza di acqua tiepida e lavati. Cicco, già ricco come un principe perché possedeva un flauto, un gatto vero e un gatto finto, ora fu ancora più ricco perché ebbe in dono una focaccia col finocchio. Se la mise sotto il braccio e quando madonna Camilla gli chiese se voleva mangiarne una fetta, la guardò con il suo sguardo più cattivo. Alla sera lo misero a letto con i gatti, con il flauto e la focaccia.
- Quel fanciullo non dovrebbe possedere un flauto. Tutti si voltarono a guardare chi aveva parlato. Lui era là, sulla porta, tutto avvolto nella grande tonaca nera lunga fino ai piedi, alto e giallo perché soffriva di bile, l'abate Ipocondrio. Tutti lo guardarono interrogativamente, in silenzio.
- Nessun fanciullo dovrebbe possedere un flauto, - ribadì l'abate.
- Perché? - chiese Venafro, e intanto pensava che tutti i bambini dovrebbero possedere un flauto, o un piffero, o un'ocarina.
- Il flauto non dovrebbe nemmeno esistere, - ampliò il suo pensiero l'abate avanzando nella sala; e non solo il flauto, ma la viola, il liuto, i tamburelli e tutti i maledetti istrumenti seduttori.
Il duca Franchino pensò alla sua viola d'amore e sorrise.
- Mille volte dannato sia, chi inventa uno strumento da far musica, poiché anime perdute sono quelle che amano suonare e cantare. Anche il canto conduce a perdizione.
- Ahimè, monsignore, il grande Gregorio non pensava come voi, intervenne la marchesa leggermente irritata.
- Il grande Gregorio fece canto da farsi in chiesa. In chiesa può farsi canto ed anche musica, signora, ma fuori dei luoghi consacrati è bene che siano banditi l'uno e l'altra, perché son arti del demonio.
È il demonio stesso che insegna a modulare i toni, che suggerisce i suoni sensuali e seduttori che si traggon dagli istrumenti e che la perversa razza dei poeti lega alle canzoni stolte e licenziose sì che ogni suono, ogni nota, ogni parola, diventa veicolo di lussuria. E il diavolo si desta, e s'accosta non visto a suonatori ed a cantanti, e presta il suo potere diabolico alla lor arte, accende i cuori di chi fa musica e di chi ascolta, e impure fiamme serpeggiano nel sangue e accendono desideri innominabili che trascinano uomini e donne nell'abisso del peccato.
Tutti ascoltavano in silenzio, tranne la marchesa che domandò: - Quei desideri innominabili, monsignore, sarebbero forse desideri d'amore? - Madonna non fatemi dire parole impure. Ricordate che il demonio è sempre pronto alle nostre spalle. E ricordate che suoni e parole sono i veicoli che lo lasciano entrare in noi. Per questo tutti i suoni e certe parole si possono fare e dire solo nei luoghi consacrati, dove il demonio non può entrare, ma resta confinato sulla soglia a divorarsi di rabbia. Allora suoni e canti diventano veicoli di emozioni pure, linguaggio per parlare con Dio. Ma guai a chi li porta fuori delle chiese, guai a chi con essi offre al demonio il mezzo per sedurre gli altri. Non oso pensare che cosa può essere un flauto nelle mani di un ignaro fanciullo, o d'una donna, che di saggezza è pari ad un fanciullo. Non oso pensare che cosa diventerebbe il mondo se un giorno ogni uomo, donna o fanciullo potesse maneggiare uno strumento da far musica, per cantare e per danzare e fare tutte quelle cose stolte e sconce che dal canto sono alimentate e dalla musica. La seduzione correrebbe per le strade, la lussuria scivolerebbe per ogni vena e all'uomo pio non resterebbe che esser cieco e sordo per sfuggire alle tentazioni e salvare l'anima sua.
Il vecchio Ipocondrio tacque chinando la testa sul petto. Poi la rialzò con scatto guerriero e disse: - Perciò dico che domani si tolga il flauto a quel fanciullo.
- Provateci voi, - disse calmo Venafro che già mentalmente aveva fatto il conto dei flauti, pifferi, ocarine e di tutti gli strumenti che c'erano nel castello. La marchesa, pallida di sdegno, s'alzò e lasciò la sala senza dire nulla.