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La marchesa ascoltava rapita e vedeva negli occhi azzurri del trovatore le nebbie di Bourget e le torri di Avignone, le cavalle della Camargue e i mandorli fioriti.

- A un tratto, madonna, sentii il suolo farsi molle sotto gli zoccoli del cavallo; larghe chiazze di fango si alternavano alla prateria, stagni colorati di verde a dolci colline dorate di giaggioli. E un odore nuovo sentivo nell'aria, un molle profumo di terra salmastra misto al più dolce sentore di mimosa. Finché a un tratto lo vidi, dall'alto di una verde collina, confuso nei vapori della sera, il mare azzurro e silenzioso.

- Il mare, trovatore? dimmi, com'è il mare? - Il mare è la grande coppa del cielo, l'interminabile viaggio dei delfini, l'azzurro crogiuolo di limpidi cristalli. Un fremito continuo lo percorre incessantemente, come un immenso corpo che goda di un'infinita carezza.

- E là, trovatore, sono maturate queste ciliege? - Sì, madonna. Là i fiori del mandorlo sono già stati portati via dal vento, e quelli dei peschi, e quelli dei ciliegi. Là i tralci delle viti già inturgidiscono e mettono grappoli, là i primi frutti maturano sui rami, là io raccolsi fragole, madonna, e queste ciliege, per voi.

Tacque guardando la marchesa che toccava dolcemente con le mani le belle ciliege nel cestino.

- Grazie, trovatore, - disse alzando gli occhi e guardandolo a sua volta, - non potevi farmi regalo più gradito. Ma se laggiù era così bello, dimmi, perché sei tornato a questi monti? - Cercherò di spiegarvi, madonna, quello che mi accadde. Quando vissi l'inverno a Chambery, tra i monti pieni di neve, ero triste, ma pensavo che l'inverno sarebbe passato e al primo tepore di primavera sarei partito verso il sud in cerca della mia felicità. Ed era tanto viva l'attesa che non aspettai nemmeno il fiorire della stagione e lasciai il castello ancor sepolto nelle nebbie invernali. Ed ero felice nella tormenta e nel freddo perché pensavo che laggiù mi attendeva il sole, il mare e il cielo più azzurro del mondo. Quando mi smarrii nella foresta, avevo paura ma non ero infelice perché sapevo che dovevo sopravvivere per quello che il mio cuore attendeva, la felicità promessa e sicura. E il mattino che la nebbia si sciolse sul lago, rabbrividendo nel mio mantello bagnato, io ero felice come un re. E felice discesi giù per la bella Provenza di castello in castello, come guerriero alla conquista del mondo: e la primavera si faceva ogni giorno più viva e più calda. Quando giunsi ad Avignone splendeva su ogni ramo, su ogni erba, splendeva nell'aria del giorno e della notte, nell'alba e nel tramonto: io guardavo dalle torri della città la campagna più bella del mondo, ma allora mi accorsi che non ero felice... Avevo le mani piene di gigli, e non sapevo a chi offrirli. Il mio liuto taceva più silenzioso di quanto mai non fosse stato nel crudo inverno della montagna. Le eriche azzurre della Camargue mi struggevano la mente, i tramonti mi facevano soffrire fino a desiderare di piangere, e più il mondo diventava bello, più il cielo era azzurro e caldo, più la campagna rideva... più era triste il mio cuore. Giunto al mare, sedetti su una roccia, là sulla riva, e guardavo la mia immagine riflessa nell'acqua che era limpida e quieta come quella d'un lago. Fu là, madonna, che potei misurare tutta la mia pena allorché in quell'acqua di puro cristallo vidi la mia immagine, sola. D'un tratto l'acqua si mosse sotto di me, ebbe un piccolissimo fremito: io piangevo, madonna. - Qui il trovatore tacque e guardò la marchesa.

La marchesa sorrise in silenzio. Prese dal paniere un grappolo di ciliege e le offrì al trovatore nella sua bianca mano. - Mangiamo, trovatore, - e così dicendo ne portò una alle labbra.

- Allora, - continuò il trovatore mangiando le ciliege che gli porgeva la marchesa, - volsi il mio cavallo verso il nord e risalii per altra via verso le montagne. E a mano a mano che ritrovavo la natura aspra del nord il mio cuore si apriva al canto e alla speranza, il mio corpo si riscaldava a mano a mano che l'aria diveniva più fredda. Quando giungemmo in vista di queste mura camminavamo baldanzosi e lieti, io e il mio cavallo, sotto la pioggia come se fosse sole, e il cielo grigio era azzurro per noi, e le nubi erano astri d'argento e il fango della strada era molle tappeto di fiori. Quando cantavo sotto la vostra finestra, la pioggia era per me la più calda carezza di primavera, ed ora, madonna, sono qui e vi guardo...

- Lasciate, madonna, che baci i vostri piedi, - disse il trovatore inginocchiandosi innanzi alla marchesa che sedeva nell'ampio scanno coperto di pellicce. La pioggia era cessata e la luna saliva dietro i monti illuminando la stanza della marchesa di una pallida luce bianca.

Non v'erano altri lumi nella stanza. La donna gli prese il volto tra le mani e disse: - Alzati, trovatore, non m'importa che mi baci i piedi. Bacia piuttosto la mia bocca. Il trovatore la guardò pensoso: - Non voglio profanare il tuo purissimo corpo.

- Tu non profani nulla. Il mio corpo, anche dopo, sarà purissimo come prima; e più felice. Vieni a me, germoglio che ti desti al suono della mia voce, virgulto che ti levi al calore della mia mano, fiore che sbocci al bacio della mia bocca. Vieni e scaccia la tristezza dal mio corpo e dal tuo.

Il giorno seguente era un vero giorno di primavera. Nel sole del mattino che inondava la corte il trovatore sedeva sul suo cavallo e accordava il liuto. Cicco lo guardava dal basso con gli occhi sgranati: non aveva mai visto un liuto. Quando lo strumento fu accordato, il trovatore si chinò dal cavallo verso il bambino e disse: - E per te, Cicco. - E intonò quella ballata che incomincia "A l'entrada del temps clar", che qualcuno aveva composto per salutare la primavera e la sua regina. Il bambino guardava ridendo e batteva le mani alla fine di ogni verso quando il cantore gridava a piena gola il suo "eya" esultante