Выбрать главу
Il testamento

Il duca di Mantova sedeva infreddolito nella sala del castello mentre il vecchio notaio Favretto, che era salito fin lassù a dorso della sua mula triste e reumatica, leggeva noiosamente il lungo testamento.

Certo il duca non ascoltava. O almeno non tutto. In esso il marchese Alfonso di Challant nominava erede di tutto il feudo proprio quel duca Franchino di Mantova, duca senza ducato, che di ogni guaio era stato causa certa, e privava dell'eredità legittima la più giovane figlia Bianca, la marchesa dai capelli neri. Ma quando si volesse conoscere l'intenzione vera che aveva dettato al marchese il testamento, si legga il codicillo e il comma dell'ultimo paragrafo con la clausola maligna e vincolante che il duca, nella fretta d'accettare, non aveva letto prima d'apporre la sua firma. La clausola diceva che l'erede avrebbe dovuto per il resto dei suoi giorni, infallibilmente fino alla morte, vivere casto senza femminil congresso. A far rispettare l'impegno di castità del duca secondo la lettera del testamento, erano stati chiamati dai conventi della valle dodici abati che vegliassero indefessi sulla virtù del duca e sul suo onore. Ed erano venuti, lunga fila nera, con cavalli e con mule, e s'erano insediati nel castello, coi loro servi, coi loro paramenti, con messali e con altre masserizie, e con i loro strani nomi oscuri: Malbrumo, Nevoso, Foscolo, Mistral, Umidio, Santoro, Prudenzio, Leonzio, Celorio, Ildebrando, Torchiato, Ipocondrio.

Qualche giorno dopo, una sera di settembre, quando i colchici cominciavano a fiorire nei pascoli annunciando i primi freddi d'autunno, una bella sera di settembre arrossata dal rimpianto dell'estate, era giunto anche Venafro. Chiamato, non si sa da chi; atteso, da nessuno. Era giunto solo, sul suo cavallo nero, senza seguito, senza scudiero. Aveva chiesto ospitalità alla marchesa. La marchesa aveva chinato il capo. Ed ora Venafro viveva in quel castello, in una stanza alta della torre, che di notte si distingueva sopra l'altre per un piccolo lume che vi brillava fino a tardi, occhio di fuoco nel buio della valle. In quella stanza, la notte, quando gli uomini e gli animali tacevano nel sonno, Venafro, solo, scriveva il suo erbario. Alcuni frammenti ne sono rimasti.

"Cresce nella mia terra il lauro severo, dalla fronda scura profumata di mare, che tutto l'anno verdeggia in cima alla scogliera. È la pianta degli amori freddi e casti, che durano tutta la vita perché non si consumano mai; è la pianta che Dafne condannò a simbolo di castità, opponendo la fredda scorza di legno al caldo bacio di Apollo.

Chi vuole amori più caldi scelga il rosmarino; anch'egli verdeggia tutto l'anno, ma quando si scioglie il duro inverno, si riveste di spighe azzurre e profumate che precedono il colore e l'odore dell'estate. Come l'amore, può durare ogni tempo; ma viene sempre una stagione che lo rinnova alla radice.

Chi vuole amori appassionati, scelga il verde melograno. Cresce nella mia terra al margine del pometo la sua dolcissima fronda color dell'acqua viva, che al sole di maggio fa radi fiori rossi: i fiori sono pochi, perché sono assai belli, ed ognuno in settembre dà un mirabile frutto di cristalli color sangue, che dura tutto l'inverno.

Chi vuole amore eterno, oltre il tempo e la vita, trovi la fredda albrizia, la pianta color ghiaccio che vive nelle nevi, immutata tutto l'anno. Non ha né fiori né frutti, perché non vive e non muore; la sua fronda non è verde né conosce alcun colore; non ha profumo né sapore, perché non vive e non muore. Non si moltiplica lungo le rive, perché non muore, quindi non vive." Un altro frammento dell'erbario di Venafro è "Il calicanto o albero della gioia".

"Se passi dove fiorisce il calicanto al primo fondersi dell'inverno, spezzane un ramo e non temere. Ricresce il calicanto più verde dove l'hai spezzato ed ha sulla tua vita un potere meraviglioso: t'insegna a godere d'una gioia rara e misteriosa, e tu potrai camminare sotto l'acqua d'agosto e non accorgerti pure che piove, correre in cima a un colle e non sapere se in salita fu la tua corsa oppure in discesa, e cosa mirabile invero ed assai rara, guardare un tramonto d'autunno con la certezza che il sole, in realtà, non tramonta mai." Non restano purtroppo altri frammenti dell'erbario di Venafro, né sappiamo con certezza se egli l'abbia mai portato a termine; infatti accaddero nel castello, a partire dal momento in cui egli vi giunse, molti fatti misteriosi e strani.

Il duca di Mantova

Il duca Franchino di Mantova avrebbe dovuto essere piuttosto un menestrello. E lo avrebbe anche voluto, forse. Infatti era biondo, esile, con gli occhi azzurri. Esattamente come dovrebbero essere tutti i menestrelli. E perpetuamente innamorato. Anche se non sapeva amare.

L'unica volta che aveva coronato il suo sogno d'amore, aveva sposato la marchesa Eleonora di Challant, ed era stato un disastro. La sua fragilità nervosa non aveva retto. Se non fosse morta prima la marchesa, sarebbe certamente morto lui. Ora si compiaceva della sua condizione di vedovo, perché il nero del lutto gli donava. E poi le donne si innamorano volentieri di un giovane vedovo, soprattutto d'un vedovo biondo. Così, tra sincera malinconia e compiacimento della stessa, tra gramaglie e pizzi candidi di Bruges con cui ornava i suoi abiti neri, il duca Franchino passava i suoi giorni al castello di Challant, assorto nei lunghi tramonti alpini, componendo canzoni sulla viola d'amore. E questa era veramente la sua arte, l'unica. Egli, che aveva dimostrato nell'amministrare il suo ducato tanta inettitudine da uscire fallito da una terra ricca e florida di agricoltura e commerci, da uscirne, vogliamo dire, fallito e squattrinato lui, lasciando intatta la ricchezza del suo paese che ancora lo rimpiangeva e lo amava, ebbene quel duca fallito componeva rime e ritmi sulla viola d'amore. Spesso tutta la notte brillava il lume alla sua finestra e faceva riscontro a quell'altro lume che brillava più in alto, nella torre, ed era il lume di Venafro che scriveva il suo erbario.

Quando aveva firmato l'accettazione del testamento, il duca Franchino stava cercando una rima difficile per una ballatetta che cominciava "il pensiero che al zefiro s'affida...", e in tale ricerca era tutto immerso al punto che non aveva inteso più nulla della lettura del testamento. Quanto a leggere lui stesso il testamento prima di firmarlo, se n'era dimenticato. O meglio, se n'era guardato bene.

D'altra parte, chi pensasse che il duca era interessato a quella eredità sbaglierebbe di molto; al contrario, prevedeva seccature, amministrazione di beni, amministrazione della giustizia tra i nuovi sudditi, rapporti di vicinato con i signori confinanti eccetera. Tutte cose per cui non aveva nessuna vocazione. Ma aveva accettato, perché gli sembrava brutto non accettare, perché di solito si fa così; il perché, in fondo non lo sapeva neanche lui.

Così ora si trovava vincolato ad un impegno grave e ineluttabile, che obbligava il suo onore, e ancor più la sua vita perché quei dodici abati venuti apposta per sorvegliarlo, evocati dal testamento stesso del diabolico vecchio, non lo abbandonavano un istante, se non quando si chiudeva la sera nella sua camera del castello, solo.

In un primo tempo, benché alla tardiva lettura del codicillo avesse provato una stretta al cuore, non vi aveva dato molto peso. Era un momento in cui gli pareva di non avere desideri.

Ma nacquero subito, il giorno dopo, all'alba. Fu nel risvegliarsi, quando forse un brandello di sogno indugiava sulla soglia della sua coscienza, un fragile brandello, che non oltrepassò quella soglia e si sciolse in un muto senso di gioia e di calore che si sparse per le membra ancora immerse nel sonno, serpeggiò nel sangue addormentato e tutto il corpo riempì a un tratto di vita e di piacere. E il duca si svegliò come in un giorno di festa.

La festa durò fino al momento in cui il duca entrò nella sala del castello. E vide gli abati. Per la verità non tutti si occupavano di lui. Alcuni erano affaccendati in loro imprese personali e in queste completamente assorti. Ma non, per esempio, Ipocondrio. Egli scorse subito il sorriso sul volto del duca. E di dove nasce un sorriso? Dal peccato. E qual è il peccato? La carne. Il duca doveva essere un assai fragile peccatore, perché il sorriso fuggì subito dal suo volto come un uccello sorpreso dall'inverno.