Ma alla fine della prima strofa il trovatore tacque guardando innanzi a sé: a pochi passi il duca Franchino lo squadrava, immobile, con uno sguardo che non lasciava dubbi.
- Partite, trovatore? - chiese il duca con tono secco.
- No, monsignore; resto, col vostro permesso, - rispose il giovane a bassa voce.
- Vi sbagliate, messere: voi partite, - e così dicendo il duca girò sui tacchi e rientrò nel castello.
Il giovane rimase a lungo silenzioso; poi prese il liuto e rabbiosamente cantò il ritornello della sua ballata con quanto fiato aveva in gola: Via di qua, via di qua, voi gelosi...
Ma ormai non era più felice e lacrime di rabbia gli spuntavano tra le ciglia. Tacque pallidissimo in volto e mormorò verso la porta di dove era scomparso il duca: - Maledetto, maledetto, maledetto.
Cicco guardava senza capire nulla di quell'improvviso cambiamento d'umore. Il trovatore si chinò verso di lui e lo sollevò sul dorso del cavallo: -Vieni, Cicco, vieni con me, - e galopparono verso la foresta. Nessuno aveva assistito a quella scena, nessuno aveva visto partire l'uomo col bambino. Più tardi nessuno sapeva dove erano e tutti li cercavano. Il duca tacque.
Essi erano nel bosco e si aggiravano fra i tronchi degli alberi esaminando il suolo.
- Qui, Cicco, corri qui, ce n'è uno grandissimo, - gridò il trovatore.
Il bambino accorse e si chinò sul mucchio di terriccio di un formicaio enorme. Grosse formiche nere si muovevano in tutte le direzioni per le loro strane faccende. Con dita abilissime l'uomo e il bambino cominciarono a catturare formiche chiudendole in una scatola di legno che l'uomo aveva con sé e che era servita, in altri tempi, a custodire la chiave per tendere le corde del liuto. Quando ritennero di aver catturato un numero sufficiente di insetti, la scatola fu chiusa accuratamente e i due poco dopo comparivano nella corte sul cavallo del trovatore.
- Cicco, giura sul tuo onore che non parlerai con nessuno di questo, disse il trovatore picchiando con la mano sulla scatola che risuonò nella tasca che portava a tracolla. Il bambino lo guardò con un cenno d'intesa, serissimo.
Quella sera, alla fine di una giornata tempestosa e tormentosa per alcuni di coloro che vivevano nel castello, quando tutti si furono coricati e già stavano per abbandonare nel sonno le cure della vita, un urlo d'angoscia risvegliò di colpo il castello, un urlo che proveniva dalla stanza del duca e che neppure gli spessi muri bastarono ad attutire: tutti balzarono in piedi e si precipitarono verso il luogo dell'urlo, ma già gli abati, che dormivano nelle stanze attigue a quella del duca, erano accorsi da lui e guardavano esterrefatti le bianche lenzuola di lino formicolanti di insetti neri.
Nessuno riusciva a rendersi conto di quello che era successo. Il duca aveva un sospetto, ma tacque. Qualcuno, pur avendo sentito l'urlo, non si mosse dal suo letto e soffocò il riso nel cuscino. Cicco aveva cercato di rimanere sveglio per vedere come andava a finire la faccenda delle formiche, ma non c'era riuscito e, ahimè, neppure l'urlo del duca l'aveva svegliato.
- Cuci, marchesa, la pietra cristallina sul mio giustacuore, cucila qui dove batte la pompa del sangue, dove il muscolo della vita irrora le vene del mio corpo. Cucila accanto all'assurdo carbonchio dalla luce nera, accanto al prezioso rubino che porta sventura. - Così l'abate Mistral pregava la marchesa di Challant, che lo guardava muta e pensierosa. - Io voglio partire, madonna, da questo castello e andare per il mondo a cercare ventura.
- Perché vuoi partire, Mistral? - Perché ho guardato nei tuoi occhi, e ho visto l'amore. Ma non era per me. Cuci la pietra di cristallo con le tue mani, perché possa sentirla sul petto quando sarò lontano. - Gli occhi grigi dell'abate Mistral non sorridevano questa volta, ma erano tristi e profondi.
- La primavera non porta fortuna a questo castello, Mistral. Tu hai visto l'amore nei miei occhi, Mistral, ma non ti sei accorto che c'era anche del pianto.
- Accade spesso che l'amore si accompagni col pianto. Ma non necessariamente, marchesa. Ti auguro che il vento asciughi presto le tue lacrime. E se pure non si dovessero asciugare, sappi che è meglio piangere perché si ama, che non piangere perché il cuore è vuoto.
La marchesa prese il giustacuore che Mistral le porgeva per cucirvi il puro cristallo di rocca che nasce nel cuore della terra. In quel momento entrò il duca Franchino e il volto della marchesa divenne di ghiaccio. Il duca parve confondersi e arrossì: - Dovete capirmi, madonna, quel ragazzo mi ha mancato di rispetto, qui nella mia casa.
La marchesa lo guardò a lungo con occhi duri: - Voi sapete bene che non è per questo che lo scacciate.
- Perché? Vi sembra poco riempirmi il letto di formiche? A me? - Le formiche sono state tolte fino all'ultima. Via, duca, sapete bene che già prima gli avevate ordinato di andarsene.
- E va bene, - disse il duca arrossendo violentemente, - avete ragione; ma voi sapete anche perché gliel'ho detto... non fatemi dire di più; anche la mia sensibilità ha i suoi diritti.
La marchesa lo guardò a lungo, poi disse: - Non dovreste mai dimenticare che una donna ha il diritto di scegliere l'uomo per cui soffrire. - E così dicendo uscì.
Il duca rimase solo con l'abate Mistral, che gli si rivolse grave e pensoso: - Permettetemi di dirvi, monsignore, che se il trovatore ha commesso una scorrettezza nei vostri riguardi, voi avete commesso un grave errore con la marchesa. Vi consiglierei di pacificarvi con quel ragazzo e rendergli la vostra ospitalità. Vorrei che lo faceste prima della mia partenza.
- Perché? Voi partite, Mistral?
- Sì, monsignore.
- Ma la vostra partenza mi rattrista, sinceramente. Perché volete partire? E per dove?
- Il perché preferirei non dirvelo, - sorrise Mistral; - per dove, non posso dirvelo, perché non lo so.
- Capisco, - disse il duca chinando la testa.
Quella stessa sera il duca Franchino chiamò in disparte il trovatore e gli disse che, se voleva, poteva fermarsi al castello e lo pregava di dimenticare che gli aveva ordinato di partire. Il trovatore lo ringraziò, ma rispose che ormai aveva deciso di partire anche di propria volontà, e prese congedo dal duca. Più penoso fu congedarsi dalla marchesa. Ella non capiva le sue ragioni e continuava a dire che non erano ragioni.
- Se resti, trovatore, il duca sarà infelice, non ne dubito; ma se tu parti sarà infelice ugualmente, ed oltre a lui sarò infelice anch'io, e forse anche tu. Ci sarà più infelicità al mondo, ecco tutto.
- Il vostro ragionamento può anche essere giusto, ma io non posso più restare. Non so spiegarvi perché, ma non voglio essere felice sentendomi colpevole. - Tu forse non ti sentirai colpevole, partendo, perché sarai infelice; ma in realtà sarai molto più colpevole.
Quando il trovatore partì, il mattino dopo, la marchesa non lo accompagnò fino alla soglia. Restò nella sua stanza a guardarlo di dietro i vetri.
Lui usciva solo e lento verso le mura sul suo cavallo e col suo fagotto legato dietro la sella. Ad un tratto Cicco uscì dalla soglia e lo rincorse: agitava qualcosa in mano, qualcosa che aveva un lungo manico a cui erano legati dei nastri. La marchesa aguzzò gli occhi e riconobbe il liuto del trovatore: l'aveva dimenticato. Cicco glielo porse e l'uomo sembrò ringraziarlo, gli fece una carezza, poi sciolse i nastri dal manico del liuto e li diede al bambino dicendogli qualcosa.
E partì. Poco dopo Cicco entrava nella stanza della marchesa e le consegnava i nastri. Aveva il viso triste, il bambino. E la marchesa piangeva.
Quella sera partì anche Mistral. La marchesa lo aiutò ad infilarsi il giustacuore su cui aveva cucito, con le sue mani, la limpida pietra di cristallo.
- Vi vedo triste, madonna. Ma so che non lo siete per me.
- Vi sbagliate, Mistral. Per il trovatore io sono amareggiata, triste sono per voi. - Mistral già sul suo bel cavallo, il nero Souveral nato nelle praterie selvagge della Camargue, si chinò a prenderle entrambe le mani e le baciò a lungo.