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- Dove andrete, Mistral?

- Non lo so, marchesa. In cerca di ventura.

- Si rizzò sul cavallo e si volse di profilo contro il sole che tramontava.

- Credete che possa ancora piacere a qualcuna? - chiese guardando di sottecchi la marchesa e sorridendo.

- Certamente sì. Siete un uomo molto bello.

- Grazie, madonna. Credo che andrò a sedurre la regina di Francia. Ma se non mi riuscisse, riprenderò la mia veste di abate e mi farò incoronare papa; e se anche questo andrà male, ho qui la mia spada, disse battendosi sul fianco, - e mi conquisterò un impero. - La marchesa rise tra le lacrime.

- E se tutto mi andrà male, madonna, - continuò a voce più bassa, tornerò in questo castello per rivedervi sorridere, e se voi mi accoglierete, sarò felice che tutto mi sia andato male. - Così detto spronò il cavallo e uscì dalle mura.

Il mercante veneziano

Il mercante veneziano era un uomo imponente, di forse cinquant'anni, con le tracce di una recente bellezza nel viso mobilissimo e negli occhi espressivi. Era giunto su una grande e bella mula con alcuni garzoni e diversi somari carichi di bagaglio. Ma ciò che più colpiva era il fastoso abbigliamento composto di lunghe calze di velluto nero su cui ricadeva un'ampia giacca di panno rosso le cui pieghe erano rattenute in vita da un'alta cintura; sopra portava una corta mantella nera come le calze e amplissima. Abito così elegante non s'era mai visto in quelle valli. E la cosa più sorprendente era la grande fibbia della cintura, tutta di oro massiccio, in cui il mercante aveva per uso di infilare le mani quando parlava, in un atteggiamento solenne che gli dava immancabilmente il tono dell'oratore. Tutto rivelava in lui l'uomo abituato all'agiatezza, vissuto in ambiente mondano e raffinato quale la Venezia del suo tempo.

Era giunto nel primo pomeriggio di uno splendido giorno di maggio e s'era fatto precedere e annunciare da uno dei garzoni, talché trovò al suo arrivo i signori riuniti a riceverlo nella sala del castello. Per questo il suo arrivo fu più solenne di quanti altri mai e la cosa parve dargli non poca soddisfazione, sicché entrando si guardò intorno

compiaciuto. Scorse subito la marchesa e le si inchinò baciandole la mano. Poi salutò tutti i presenti secondo il rango, senza commettere il minimo errore di valutazione gerarchica, come se conoscesse da sempre gli abitanti del castello. Parve anche scorgere sul volto dei presenti le tracce delle recenti tempeste, in particolare sul volto della marchesa che era infatti straordinariamente pallido.

- Madonna, - le disse galantemente, - di assai lungi avevo sentito parlare della vostra grande bellezza, ma la realtà vince ogni immaginazione. E invero penso che quando voi sorridiate, tutto sorrida intorno a voi. Spero che avrò la ventura di vedervi sorridere.

- Vi ringrazio, signore, - disse la marchesa. - Io mi auguro che il vostro soggiorno in questo castello non sia troppo triste; da noi sta fiorendo l'estate e se voi lo vorrete, vi mostreremo il nostro roseto: la vista dei fiori può rallegrare il cuore, forse, anche a chi l'ha pieno di tristezza. - A quelle parole il duca chinò la testa e Venafro guardò la marchesa con uno sguardo intenso.

- La primavera, marchesa, - continuò il mercante, - è spesso più crudele dell'inverno, perché accende con la rinnovata bellezza i sensi addormentati nel cuore. Ed è tanto più bella quanto più triste è l'inverno, e fa tanto più soffrire quanto più è bella. È una legge di natura, signori, - esclamò girando lo sguardo circolarmente sui presenti e infilando le mani nella fibbia della cintura. E dopo una pausa soggiunse: - Nella mia terra, che s'apre sul bel mare Adriatico, non è sì grande il divario tra l'inverno e la bella stagione poiché sempre verdi allori e cipressi ornano i giardini della mia città superba, né men dolce può essere il cielo nel severo gennaio che nel maggio colorito.

- Ho spesso udito dire, - disse dolcemente la marchesa, - che la vostra città è incomparabilmente bella.

- Più bella, madonna, di quanto possiate immaginare. Ogni giorno e ogni ora il mio cuore si strugge ripensando i bianchi palazzi di marmo che si specchiano nell'acqua dei canali, le fide calli segrete dove ogni pietra può essere preziosa scultura di antichissima mano, i superbi velieri che vengon d'Oriente portando mirabili cose preziose.

- Ma perché, signore, - intervenne Venafro, - avete lasciato una terra così dolce per venire a questi monti? - Ahi, quanto m'è penoso rinnovare il pensiero di sì triste sorte che opprime in questi tempi la mia terra! Se ho lasciato le ricchezze e gli agi, il mio palazzo e la compagnia dei cari amici, non è certo, signori, senza grave cagione. Tanto grave che m'è duro anche il solo pensarvi. Ma poiché tanto amabilmente voi m'avete accolto, me esule lontano dalla patria, costretto a vivere vendendo piccole cose, ornamenti ed esotici profumi, come povero merciaio vagabondo, io che fui tra i più grandi mercanti di Venezia, vi dirò, signori, quale immensa sciagura s'è abbattuta sulla mia città sì da sgomentarne il popolo e la gente, talché ognuno pallido e dubbioso guarda, incontrandolo, l'amico con sospetto. - Bevve un lungo sorso dalla coppa di vino che gli era stata servita, sospirò e riprese: - Voi dovete sapere, signori, che un terribile morbo finora sconosciuto si è abbattuto improvvisamente sulla città e la sua terra, un morbo sì tremendo da atterrir tutte le genti e a cui i sapienti han dato un nome mai finora udito.

- Quale nome, signore? - chiese messer Goffredo, che alle ultime parole del mercante aveva preso grande interesse al suo discorso.

- L'hanno chiamato: onfalopatia.

- Onfalopatia? - sillabò messer Goffredo.

- Sì, signore. È una malattia che attacca e uccide l'ombelico. - Tutti si guardarono trasecolati.

- Uccide l'ombelico? - chiese ancora, più interessato che mai, messer Goffredo.

- Uccide l'ombelico, lo fa disseccare e cadere come foglia morta d'autunno, e l'infelice che ne è colpito si ritrova col ventre intatto e liscio, come se mai fosse nato di madre. - Un mormorio corse per la sala. - È una malattia misteriosa, miei signori, di cui non si conosce né la cagione né il modo in cui si trasmette. Soltanto sappiamo che si trasmette, ahimè, con gran facilità. Io e i miei garzoni siamo tra i pochi che se ne son salvati. Tutto cominciò il giorno che la bella contessa Mariola s'accinse a giacersi con l'amato sposo. Di nulla s'era accorta, la bella donna, né spogliandosi né guardandosi, com'era suo costume, nello specchio per controllare che rughe o solchetti non deturpassero il bel collo e il petto. Pericolo questo d'altra parte assai inconsistente, dal momento che io stesso faccio venire d'Oriente quella pomata dalle mirabili virtù che s'ottiene dai genitali del castoro, costosissima e rara e la cui manipolazione sempre mi riempie di tristezza al pensiero di quelle bestiole graziose ed innocenti che se ne vanno mutile nel mondo senza poter più godere il premio dell'amore. Ma che mai non si fa per bellezza di donna? E tal pomata, v'assicuro, delle rughe cancella anche il ricordo. La bella contessa adunque nel talamo attendeva il dovuto compenso alla sua devozione, ma proprio nel talamo il consorte tosto scoperse la crudel mutilazione. Dove credeva trovar l'amato segno che già tanto piacque a Salomone, sentì solo la pelle liscia e tesa; credette dapprima aver sbagliato luogo e alquanto in silenzio andò cercando con la mano già tremante e ansiosa; poi si fece a seder sul letto e prese un lume, l'accostò al ventre della moglie e rimase muto di sgomento e meraviglia. A quella vista la contessa si rizzò a guardarsi il bianco corpo credendo scoprirvi ruga o macchiolina, ma ammutolì tosto d'orrore vedendo il ventre tutto igualmente liscio.

Pianse a lungo amaramente e fu solo con somma riluttanza che l'indomani fece chiamare il più illustre chirurgo di Vinegia, cui fece giurare, prima di esporgli il caso suo, che a nessuno avrebbe rivelato il terribile segreto. Ma non ci fu scienza o panacea che potesse guarire la contessa e ridarle il pregio del bel ventre. E per colmare la sua gran sventura credette la bella donna il dì seguente, quando uscì a passeggiare per Vinegia, scorgere un sorriso di scherno o compassione sul volto d'ogni persona che incontrava. Ma se il chirurgo avea parlato mancando al suo dovere, n'ebbe subito la trista ricompensa, ché spogliandosi una sera vide cadere in terra una piccola foglia di colore oscuro; atterrito si guardò allo specchio: anche a lui s'era morto l'ombelico. Così a tutti fu palese che la malattia era sommamente contagiosa. In breve la città ne fu infettata. Nessuno ne parlava per la gran vergogna, ma si capiva dai volti cupi o falsamente allegri che la grande sventura già s'era abbattuta. Le donne belle e gaie d'altri tempi, divennero a un tratto assai pudiche e volevano giacersi con l'amante tutte vestite come andando in chiesa. Ma nessuno più cercava amore, o perché uomini e donne temevano il contagio, o perché arrossivano di mostrare il ventre liscio, senza il dolce segno che il pollice di Dio avea lasciato allorché fece il primo uomo, nel sollevarlo quand'era morta argilla per metterlo al sole ad asciugare.