Ma udite quel che accadde e come la giustizia divina volle punire colui che troppo di sua virtù era geloso e poco si curava d'umana carità. Accadde dunque che Prudenzio già s'era rifugiato nell'alcova e già premuta avea la leva che faceva scendere la griglia, quando Ildegonda un supremo tentativo facendo per possedere l'abate, cercò a viva forza trarlo dell'alcova senza pensare al periglio ch'ella correva né riguardo avendo alla sua vita stessa. Allora Prudenzio per sfuggire all'insidiante s'aggrappò alle coltri del l'alcova e mentre ella traeva ei facea resistenza, fin che d'un tratto la pesante griglia trafisse con le acute punte il corpo dell'abate e l'inchiodò al suolo, sì che tosto ei ne fu morto.
Questo et altro accade a chi si rifiuta alli amorosi desideri delle donne, e sia di ammaestramento alli uomini tutti che avari son dei lor favori, poi che tal vendetta contro di essi dispose la divina potestate che delle lor stesse difese saranno essi le vittime cruente.
Nelle sere di giugno la marchesa amava uscir sola la sera prima del sorger della luna, sul suo bianco Ippomele, avvolta nel suo bianco mantello di seta. Amava recarsi su un poggio roccioso ove non c'erano alberi, ma solo radi cespugli di pinastri. Di fronte si levava un monte ancor coperto di neve, che rifletteva la luce come bianchissimo marmo.
Lì attendeva il sorger della luna. Un chiarore lattigno indicava il punto in cui l'astro sarebbe sorto, e s'andava sfumando dolcemente all'intorno e disegnava la sagoma del monte come scura sembianza di pietra. Poi, quando il chiarore s'era fatto più intenso e quasi sfavillante, d'un tratto la luce s'espandeva sopra il crinale e scivolava giù lungo il monte come bianco torrente e la montagna diventava un luminoso grandissimo diamante.
Una sera che la marchesa attendeva sul poggio il sorgere della luna, accadde che quando la luce si sparse al di qua del monte, illuminò la figura di un uomo avvolto in un mantello azzurro, montato su un cavallino grigio, che stava immobile a guardare anch'egli il sorgere della luna. La marchesa gli si avvicinò incuriosita e, prima ancora che gli rivolgesse la parola, l'uomo scosse la testa e brontolò: - Ecco, è finita, ora non si vede più niente. Ha visto che luna? Non si vede più niente.
- Mi pare il contrario, - rispose la marchesa, - ora si vede tutto.
- Non si vedono più le stelle, ragazza mia. Più niente. E pensare che sono queste le notti più serene, almeno nella bella stagione.
- Siete un astrologo? - chiese la marchesa.
- Naturalmente. E che altro dovrei essere?
La marchesa non rispose, ma pensava che si poteva essere anche qualche altra cosa. Intanto osservava l'uomo, che era piccolo come il suo cavallo, avvolto in un mantello azzurro, e portava in testa un tocchetto pure azzurro.
- Quello è il castello dei Savoia, vero? - chiese indicando il castello della marchesa.
- No signore, quel castello appartiene ai Challant.
- Volete burlarvi di me, ragazza? I Challant non esistono più. Sono stati scacciati dai Savoia.
- Forse lo saranno un giorno, messere. Ma quel giorno non è ancora venuto. Quel castello è mio: io sono la marchesa di Challant. - L'uomo la guardò con occhi rotondi di stupore e la marchesa s'avvide allora che gli occhi dell'uomo erano azzurri come gemme di turchese. Strano, pensò, non se n'era accorta prima.
- O io son diventato citrullo e non so più leggere nelle stelle, o esse deliberatamente mi hanno mentito, - disse l'astrologo.
- Vi hanno mentito; forse solo in parte, - disse la marchesa. - Tutto al mondo può mentire. - E intanto si avviava verso il castello facendo cenno all'astrologo di seguirla. Quando furono nella grande sala illuminata da molte torce la marchesa fissò gli occhi dell'astrologo e il suo animo si empì di meraviglia: erano gialli e scintillavano come l'oro. Lo invitò a fermarsi alquanti giorni al castello, un po' perché questo vogliono le buone creanze, un po' perché l'astrologo dagli occhi d'oro la incuriosiva. Tutti a corte ne ebbero un istintivo timore, e benché ardessero dal desiderio di udir da lui qualcuno dei poteri fatali delle stelle, nessuno osava interrogarlo. Fu la marchesa che una sera diede voce a quell'aspettativa diffusa e gli chiese: - Ma voi, messer astrologo, leggete veramente nelle stelle come in un libro? La guardò con occhi dorati e rispose: - Meglio che in un libro, cento volte meglio.
- Ma le stelle possono mentire, o voi sbagliare nel leggerle.
- Le stelle non mentono. Se vi ho letto qualcosa di falso, io ho sbagliato a leggere... voi sapete, marchesa, a che cosa mi riferisco.
- Al fatto che i Savoia ci scacceranno di qui, capisco. Perciò questo deve succedere? È inevitabile? L'astrologo tenne alquanto gli occhi al suolo e poi li sollevò a guardare la marchesa: erano azzurri e malinconici.
- Non lo so, - disse, - non sono un indovino. Non pensateci più, marchesa. Se accadrà, accadrà. Per ora non è accaduto. - Così dicendo sollevò il suo bicchiere guardando la marchesa con occhi più azzurri che mai. Ella sorrise.
- La scienza delle stelle, signora, è ancora bambina, - continuò l'astrologo, - ed è scritta in lettere assai difficili da leggere.
Anche il più grande sapiente della terra può sbagliare nel decifrarne i caratteri.
- Ma è dunque vero che ogni uomo e ogni donna nasce sotto una stella che ne indirizza la vita, e a quella influenza non può sottrarsi neppure se vuole? - chiese Venafro, che aveva ascoltato attentamente le parole dell'astrologo.
- Certo. Questa è una delle poche questioni su cui tutti i sapienti sono d'accordo. Nel giorno e nell'ora in cui l'uomo nasce, il cielo è dominato da un astro, o da una congiunzione di più astri, che imprimono il loro segno alla vita dell'uomo, come invisibile stemma, che ne esprime il carattere e quindi il destino. Per questo vanamente si meraviglia la piccola gente che un uomo educato con gran rigore possa diventare un assassino ed altro vissuto nella foresta abbia sensi e cuore delicati, o che un pastore prenda pennelli e dipinga come Apelle o che un uomo illetterato d'un tratto scriva poemi. Questo è il potere delle stelle, che il loro marchio non si estingue anche se tutta la vita cerca di cancellarlo, e prima o poi dall'oscurità risplende come sigillo d'oro nella pietra. - Così disse l'astrologo, e girava intorno gli occhi d'oro sfavillanti. - E così, quand'anche uno fosse abate, se è nato sotto la stella della santità, prima o poi sarà santo, anche se dovesse sopportare il martirio, - ridacchiò l'astrologo con gli occhi più gialli che mai.
Mentre tutti meditavano tra loro quelle parole ambigue e ne traevano assai diversi ammaestramenti, l'abate Santoro si sentì balzare il cuore in petto. Finalmente gli si era svelata la grande realtà della sua vita.
L'abate Santoro era un omino silenzioso e in apparenza modesto.
Mangiava poco e beveva meno, e quanto a parlare, taceva sempre. A corte quasi non s'accorgevano della sua esistenza e spesso madonna Camilla doveva fare tanto d'occhiacci a paggi e servitori che non gli cedevano il passo sulla soglia e giungevano al punto di dimenticarsi di mettere a tavola il suo piatto e il suo bicchiere, il che non era poi colpa sì grave tenuto conto del continuo variare del numero degli abati, e potremmo anche dire, del loro rapido diminuire. Ma nel suo intimo l'abate Santoro coltivava una grande ambizione e da essa era tutto divorato come da una passione: voleva convertire la marchesa di Challant alle cose di fede, poiché ben vedeva, come non era difficile vedere, che la marchesa di esse assai poco si curava. L'impresa era altissima e difficile, difficile quanto convertire il Saladino... e forse più pericolosa, perché quella madonna Bianca era assai spregiudicata. In che cosa consistesse il pericolo l'abate Santoro non avrebbe potuto dirlo, ma era sicuro che per quella impresa occorreva qualcosa come un miracolo, o un martirio. E si vedeva ora in veste di san Giorgio vittorioso che calpesta il drago con il suo cavallo, ora in veste di san Sebastiano trafitto da mille frecce, legato nudo ad un albero - lui che non era mai stato nudo di fronte ad anima viva e temeva persino le spine delle rose. Ma convertire la marchesa di Challant era necessario, e questo era diventato il pensiero dominante della sua vita.