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- Non avrei gran maraviglia, - disse a messer Goffredo di Salerno, se domani alcuno avesse qualche malanno da freddo.

- Non datevi pensiero, marchesa, - egli rispose. - Vengon da Salerno comandamenti da seguire per qualsivoglia ammalamento.

E con questi discorsi, ognuno, stanco, si abbandonò nel sonno. La marchesa aveva ben preveduto, ché infatti il dì seguente giacevasi in letto l'abate Malbrumo, oppresso da assai molesto dolor di lombi.

Ancor che nessun pericolo di morte minacciasse l'abate, era tuttavia tale malanno sì molesto che di gemiti sonava tutto il castello, né v'era loco del letto o posizione delle membra che alleviar potesse all'abate il suo soffrire. Fu tosto avvisato ser Goffredo, il quale avanti ogni altra cosa comandò che all'abate fosser posti sui lombi panni di lana su cui seduta si fosse dimorata una donzella sì da scaldarli con li lombi suoi: poi che è principio costante d'ogni cura che una parte malata abbiasi a curare con simile parte di persona sana. Poi il sapiente Goffredo andò a cercare nelli libri suoi il più acconcio rimedio a tal malanno. Molte pagine volse con la bella mano e infine.

- Ecco, - disse, - è questo il rimedio più acconcio al tipo di malanno e allo stato del malato. - E tale rimedio messer Goffredo lesse: "Comandamento primo da farse per chi soffre per lo mal di lombi.

Poi che ogniun sape esser lo mal di lombi da tristizia di mente causato, dicasi a chi di tal dolore è oppresso che si adopri in amar donne leggiadre, e sì ben sua opra compia che, ancor che li lombi li dolgano tuttavia, si habia per merzede il paradiso, poi che il Giusto Remuneratore d'ogni bontade cieco non è a tanta valentìa." I signori del castello si guardarono in volto un poco dubitosi, poi che alquanto strano pareva tal rimedio. Ma tanta era l'autorità della scuola di Salerno in cose di medicina che decisero alfine di chiedere al malato se tal comandamento accettava per cura dei suoi mali. Fu l'abate Malbrumo ancor esso un po' sorpreso in udire un tal comandamento, ancor che troppo ingrato il rimedio non paressi, et alquanto silenzioso si ristette poi che non sapea se il malanno vigor bastante li lasciasse a compiere l'impresa. Ma infine convinto fue di accettare tal comandamento, vuoi per la gran fama dei signori di Salerno, vuoi per la remunerazione promessa a tanta impresa. Ma voleva ancora tal rimedio che donzelle si trovassero disposte al sacrifizio, vuoi per amor dell'abate, vuoi per carità di cuore.

E tosto si vide che questa non era real difficultate e che talvolta il prossimo nostro male giudichiamo. Non era gran tempo trascorso da quando il banditore del castello avea la richiesta annunziata nella piazza della villa, che ogniun poté con suoi occhi vedere quanto grande sia la carità che alberga in cuore femminile: molte furon le donne, giovani e meno, leggiadre e meno, che vennero al castello per alleviare i dolori dell'abate, et ei di buon animo all'opra si mise. E ancor che in prima grande aflizione il molesto dolor li recasse, il beneficio del rimedio tosto risentì, sì che li lombi riscaldaronsi nell'impresa et ei gagliardo compì sua opra, vuoi per la gran fede che avea nella scuola di Salerno, vuoi per acquistarsi il paradiso come dicea il comandamento.

Ma, ahimè, accade troppo spesso che il malato sì ben s'acconcia alla sua medicina che di essa assume più della misura, talché accade alcuna volta che cosa per il bene disposta in gran danno si rivolta, sì come già fu del liquore di colchici ch'avea ucciso il buon abate Umidio. E ancor qui simil cosa si vide. Resta alquanto oscuro se Malbrumo troppa medicina abbia preso, o se con troppo ardore tal pozione bevesse o se ancora l'amore del paradiso al di sopra di sue forze lo spingesse; accadde per tal guisa che quando venne sera e le ombre si sedettero sul trono del cielo, allora che messer Goffredo si recò dall'abate per veder se la scienza di Salerno aveva il suo male debellato, poi che a lungo bussò alla sua porta e non ne ebbe risposta alcuna, entrato nella stanza, trovò l'abate serenamente spirato nel suo letticciolo.

Autodafé

- Questo è il castello del demonio! - gridava l'abate Ildebrando agitando con la destra una torcia fumante. - È il castello del peccato! qui ognuno segue il suo talento senza freno alcuno. Qui non è limite cristiano a suoni, danze e fornicazioni! - E girava gli occhi sanguigni sui signori seduti a banchetto, il banchetto funebre per il defunto abate Malbrumo. - Non v'è al mondo luogo più impuro, dove meno si facciano digiuni ed astinenze; preghiere e penitenze son qui parole vane, poiché in ogni ora ognuno cerca solo il suo diletto. Tanto è piena di malizia questa dimora che Iddio volle toglierle in un anno undici abati affinché non fossero contagiati da tanta lebbra.

Poi puntando il lungo indice ossuto sulla marchesa, continuò: - E voi, marchesa, della mala pianta siete la radice, ché della vostra nequizia contagiate ogni persona che vive nella vostra casa. Né di questo è meraviglia alcuna, che siete donna, e quindi strumento del demonio. Né è meraviglia che nido di peccati sia questo castello, poiché voi lo governate. - E girando gli occhi sui presenti: - Tutti, tutti, - disse, - siete in peccato mortale poi che avete appreso ad amare il piacere e fuggire la sofferenza, e tutti gemerete nelle fiamme dell'inferno! Ma prima - e qui il suo sguardo ebbe lampi di follia - prima io distruggerò la Babilonia infernale, e purgherò il mondo di questa Sodoma e Gomorra, sì che anche voi perirete nel fuoco e tra le fiamme sconterete i vostri peccati: pregate Iddio misericordioso che si tenga soddisfatto del fuoco terreno che distruggerà i vostri corpi sì che voglia risparmiare le vostre anime.

Siatemi grati, che vi do l'ultima speranza di sfuggire alle fiamme dell'inferno - e agitando la torcia disseminava scintille resinose.

- Monsignore è forse piromane? - chiese con interesse professionale messer Goffredo.

Rispose Venafro:

- No, signore. Non credo. Penso che sia seguace di quell'abate di Chiaravalle che vuol scaldare l'umanità al fuoco dei roghi. Temo, signori, che possa succedere una disgrazia, - e così dicendo accennò al paggio Irzio che gli voleva parlare. Quando gli ebbe dette poche parole all'orecchio, il donzello uscì e tornò di lì a poco con due robusti garzoni che presero l'abate ciascuno per un braccio e lo trascinarono via urlante e scalpitante.

La marchesa rimase a guardare con occhi assorti la porta da cui era uscito l'abate.

- Venafro, - disse poi posando gli occhi sul suo viso, - siamo dunque così malvagi?

- Noi non siamo malvagi, madonna. Nulla è più saggio nella vita che cercarvi la gioia che vi si può trovare. La penitenza fa l'uomo triste, e l'uomo triste ama che anche gli altri sian tristi. È come una malattia contagiosa, non credete, messer Goffredo?

- Certo, monsignore. E molti mali del corpo vengono da questa tristizia. E in particolare i mali della mente, come l'angoscia del peccato e il sentirsi l'animo pieno di colpe.

- Signori, - disse Venafro alzandosi in piedi, - io credo che l'unico peccato al mondo è il male che si cagiona a se stessi e agli altri. I piaceri della tavola diventano peccato quando si porta via il cibo agli altri, i piaceri del corpo quando si costringe altri a subirli contro la sua volontà. Ma è più grande peccato avvelenarli col mostro dell'inferno, è più gran peccato indur tristezza, angoscia e disperazione nell'animo altrui che molcir le membra di carezze. È più gran peccato minacciar trombe del giudizio che suonar viole, flauti e mandolini.

- E questo nostro castello non è dunque nido di scorpioni? - chiese la marchesa.

- Madonna, - rispose questa volta il duca Franchino, - sarebbe nido di scorpioni se rubassimo i raccolti ai contadini, se più del giusto servizio chiedessimo loro, se facessimo violenza alle persone. Noi questo non l'abbiam mai fatto. E io stesso nel mio ducato di Mantova non l'ho mai fatto.