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- A noi resta la scelta tra l'esser giusti o ingiusti - continuò Venafro, - e anche il più umile servo può divenire tiranno, poi che troverà sempre una creatura più debole di lui, che possa opprimere per sentirsi forte. Ma se non cerca e non desidera questo, neppure un re è un tiranno.

- E se non volendo facciamo male a qualcuno, proseguì la marchesa, come può accadere nella vita degli uomini e delle donne, che facciano soffrire qualcuno senza pur avvedersene, non siamo per questo malvagi, perché l'intenzione non avevamo di nuocere ad alcuno. Perciò non si faccia penitenza, né si vestan grige vesti, che già abbastanza grigio è il cielo autunnale, e anche troppo triste la tenebra della lunga notte. Il male sono fame e freddo, morte e malattie; il peccato è amare le sventure e seminare tristezza. Suonate, signori, i vostri strumenti e scacciate le ombre che si addensano sulla notte d'autunno.

Domani farà giorno e finché ci sarà vita su questa terra il giorno porterà conforto agli animi inquieti e rattristati.

Fu portato vino generoso, furono messi nuovi ceppi nel grande camino, da cui la rossa fiamma si levò tingendo di lieta luce tutta la sala.

Venafro trasse il suo flauto e il duca la viola d'amore.

- Come siamo pochi, signori! - disse la marchesa, e pensava al trovatore e al filosofo, al mercante di Venezia, all'inventore da Morazzone, alla pretessa e agli altri amici che erano stati in quel castello, a Mistral che forse sarebbe tornato. - Come siamo rimasti in pochi, signori!

Venafro e il duca suonarono una ballatetta ch'era chiamata la "Ballata dell'addio". La marchesa guardava pensosa il fuoco nel camino, quando a un tratto parve che al flauto rispondesse un altro flauto, un piccolo flauto dolce suonato da un bambino. Cicco era uscito dal suo letto e stava seduto per terra nella sala e suonava insieme al duca e a Venafro. Ai suoi piedi stava appallottolato Mirò.

- Sarà meglio vegliare, - disse la marchesa quando tutti si furono ritirati e Venafro già si accingeva a portare a letto Cicco che se ne stava comodamente addormentato sulle sue braccia.

- Veglierò io, - rispose Venafro, - voi riposate, Madonna.

- Ho paura, Venafro, di quel frate fanatico; l'ho guardato negli occhi... m'è parso un malvagio.

- O malvagio o demente. Veglierò davanti alla sua porta, tutta la notte.

Ma in quel medesimo istante si udirono grida e frastuoni dalle stanze superiori, e un affannato scalpiccio per le scale, e il paggio Irzio entrò nella sala senza poter profferire parola, ma Venafro e la marchesa avevano già capito. Un acre odore di fumo era entrato con lui dalla soglia. Venafro posò il bambino in braccio alla marchesa e... - Uscite nella corte, - disse, - io sveglierò gli altri - e rivolto al paggio - svegliate tutti i servi e dite che portino fuori le bestie dalle stalle.

Quando la marchesa giunse nella corte con il bimbo in braccio sempre addormentato vi trovò il duca Franchino e messer Goffredo; questi aveva portato coperte e mantelli, tutti quelli che aveva trovato.

Altri intanto uscivano dal castello, le dame della marchesa, il paggio, i servi che conducevano dalle stalle cavalli, mucche e pecore.

La marchesa volle personalmente contare tutti; quand'ebbe constatato che non mancava nessuno né delle dame né dei servi. - E Venafro? - chiese, - dov'è Venafro? - In quel momento Venafro usciva dal castello che già sprigionava fumo intenso da ogni apertura. - Madonna, - gridò, - non sono riuscito a trovare l'abate Ildebrando! Tutti si volsero a guardare il castello. Lingue di fuoco uscivano dalle finestre che l'immenso calore faceva esplodere. Ogni soffitto, ogni trave ardeva sprigionando scintille resinose. Si vide con un rombo crollare il soffitto della sala. Su molti visi scorrevano lacrime mute.

D'un tratto un urlo che veniva dalla grande terrazza del castello fece alzare a tutti lo sguardo. Una figura nera si stagliava contro il fuoco delle fiamme, agitando una torcia in ciascuna mano.

- Castello maledetto! - gridava la figura avvolta nella nera tonaca svolazzante, - perirai con tutti i tuoi abitanti! e io, io avrò fatto giustizia di tanti peccatori! - In quella la terrazza precipitò trascinando con sé l'uomo in un groviglio di travi ardenti.

Mirò, che come tutti gli altri guardava in su con la coda ritta, stridette all'indirizzo dei cani da caccia che i servi avevano tratto dai canili. Secondo la sua logica era tutta colpa loro.

Giungevano dal villaggio in lunghe file i contadini della marchesa ad offrire il loro aiuto. I bagliori delle fiamme si fondevano con i primi grigiori dell'alba quando il castello rovinò tutto sulle sue fondamenta Molti piangevano. Venafro cinse con il braccio le spalle della marchesa. Cicco non si svegliò neppure.

La marchesa si volse ai suoi ospiti e ai suoi servi e disse semplicemente:

- Il castello di Challant non c'è più. Poiché non abbiamo più una dimora, ognuno si tenga libero di andare dove vuole. Io e Cicco andremo a chiedere ospitalità alla saggia pretessa alla "Fin du monde". Venite con me, Venafro?

- Sì, madonna.

Poi rivolta agli altri, alle dame, ai contadini, disse: - Se qualcuno dei nostri amici, venendo a cercarci, chiederà del castello di Challant, dite che non esiste più. Ma ditegli che noi esistiamo ancora e che se vuole potrà trovarci, in qualche parte di questa valle.

Poi montò in sella a Ippomele e Venafro col bambino addormentato montò sul suo Rabano. Mirò si arrampicò davanti alla marchesa. E partirono nelle prime luci dell'alba. Quando Cicco si fosse svegliato, diceva la marchesa, si sarebbe ritrovato in quella stessa casa da cui era partito alcuni mesi prima. Chissà come sarebbe stato contento di rivedere la pretessa!

- Ricostruirete il castello, marchesa?

- No, Venafro. Un castello non si può ricostruire. Costruirò una casa, perché possano abitarci tutti quelli che verranno a cercarci.

Camminavano già da qualche tempo sul sentiero silenzioso, quando la marchesa disse:

- Voi siete molto buono, Venafro.

Venafro sorrise in silenzio, poi disse:

- Non so neppure che cos'è la bontà. Sto con voi perché mi fa piacere.

La vostra presenza mi rende ora lieto ora triste, qualche volta mi fa soffrire molto. Ma sempre mi tiene vivo, mi fa godere di più della gioia, rende più acuti i miei occhi e più sensibili le mie orecchie; la mia mente è più desta, e se mai occorresse, avrei più coraggio Senza di voi, forse non soffrirei, ma vivrei di meno. E la vita è tutto quello che abbiamo.