Poi, la notte successiva, sognò. Sognò che seduto sulla sponda del letto svegliava una donna addormentata. Era l'alba, e quel sonno, non sapeva perché, l'offendeva. Svegliava la donna che dormiva chiamandola per nome, ma quale nome, non sapeva. Chiamava piano, a lungo, finché la donna sollevava la testa e gliela posava in grembo. E lui, allora, sentiva l'odore del suo corpo.
Nei giorni seguenti il duca Franchino si ricordava del sogno tutte le volte che era vicino a una donna, e allora aguzzava il naso per riconoscere quell'odore che aveva sentito nel sogno, ma così, senza darlo a vedere, da quella persona ben educata che era. Perché l'odore era la cosa che più gli era rimasta impressa: non il volto, non lo sguardo; ma solo la poca luce dell'alba e il tiepido odore tranquillo.
Ogni corpo ha un suo odore. Ogni persona che si ama, si ricorda anzitutto all'odore.
Ma chi amava il duca? Non madonna Camilla, damigella della marchesa, che lo saettava di sguardi di spregio perché vedeva in lui un assurdo straniero. E poi era magra e severa. Non la damigella Ildegonda, alta e bionda. Appunto, d'una spanna più alta di lui. Forse Pilar, venuta dalle corti moresche di Spagna? O la bella Maravì, della corte angioina di Napoli? Stretto nel dubbio, il duca cominciò a indagare.
Indagava se stesso e gli altri. Anzi, le altre. Ad ogni vicinanza, ad ogni casuale contatto, appuntiva i suoi sensi, acuiva il suo ingegno, si tendeva tutto, e spiava il viso della donna, quella che gli era accanto di volta in volta, per indovinare, scoprire la verità. Voleva sapere chi era la donna del sogno. Voleva sapere chi era la donna che amava. E aguzzava il naso per ritrovare l'odore.
Il duca ripensava a quel sogno una sera guardando il precoce tramonto d'autunno che già immalinconiva per la valle. Quando un bussare precipitoso alla sua porta lo fece trasalire. Era il giovane Irzio, paggio della marchesa e giovinetto ancora imberbe, che nella fretta d'annunciargli qualche cosa incespicava nelle consonanti e tentava di completare a gesti il messaggio. Il duca non avrebbe capito molto se non avesse udito un suono di liuto salire dal basso, dalla sala del castello. Mentre scendevano insieme le scale il paggio Irzio riuscì a dire che a corte era giunto, proprio allora, un trovatore.
Tutti si affrettavano verso la sala, dove la marchesa e le sue donne già sedevano; Venafro stava in piedi alle spalle della marchesa, e gli abati giungevano da varie parti del castello.
Avevano formato un circolo, in mezzo al quale sedeva, su un basso sgabello di noce, il trovatore. E accordava il suo liuto. Quando il duca lo vide, rimase attonito. Credette di vedere se stesso, forse più giovane, forse più bello, forse quel se stesso che egli avrebbe voluto essere. I grandi occhi azzurri del trovatore, quando si alzarono dal liuto, erano gli occhi di un eterno incolpevole. Sorrise e intonò "can vei la lauzeta mover..." Quando la bella canzone nostalgica fu terminata, la marchesa chiese "Calenda maia". Il duca ascoltava assorto. Allorché risonarono, appena confusi col suono del liuto, i versi audaci di Rimbaut che rinfaccia alla donna di non averla mai avuta nuda tra le braccia, il duca ebbe un sussulto e guardò la marchesa. Gli parve che lei lo stesse guardando. Poi, a richiesta delle donne, fu suonata una danza. Venafro si avvicinò al trovatore e lo accompagnò con il suo flauto provenzale: tutte le donne, anche la marchesa, danzarono in circolo; danzò anche il duca e teneva per mano la marchesa; danzava anche l'abate Mistral, che tra gli altri abati si distingueva perché fin dal primo giorno aveva smesso la lunga tonaca nera e vestiva da cavaliere; e quale agile cavaliere amava i cavalli e la danza. Il duca di Mantova danzava con grande maestria, senonché quando la danza voleva che girasse il capo dalla parte dove stava la marchesa, egli precedeva di un attimo il tempo; quando doveva girarlo dalla parte opposta, il suo movimento giungeva in ritardo.
Finita la danza la marchesa fece preparare le tavole per la cena e volle che il giovane trovatore sedesse a capo della tavola, accanto a lei, alla sua destra, ed ella stessa lo condusse tenendolo per mano.
Veloce come un giovane gatto il duca si sedette alla sinistra della marchesa, e già stava per avvicinare allo scanno della marchesa il suo che gli pareva troppo lontano, o forse non abbastanza vicino, quando, non veloce, ma con pesante determinazione l'abate Umidio pose il suo scanno tra lui e la marchesa; e altrettanto pesantemente su questo, nel mezzo, si sedette. Poi si voltò, l'abate Umidio, verso il duca che lo guardava stupito, gli alitò in faccia il suo fiato pesante, abbassò la testa sulla tavola e si immerse nel cibo.
Il duca guardò il cibo senza appetito. Alzando gli occhi vide che Venafro, di fronte, lo osservava.
La marchesa discorreva col trovatore di poesie e di danze nuove venute di Provenza e d'Aquitania: vestiva un abito color d'argento che moltiplicava la luce dei grandi lumi infissi alle pareti e li turbava ad ogni movimento delle braccia e del corpo.
Quella notte il duca non poteva risolversi ad andare a letto. Sedeva alla sua finestra e guardava la luna che imbiancava la valle. Come un anello bruno le alte e doppie mura che cingevano la corte spiccavano sul lucore intatto. Ogni cosa era immobile nella notte e nulla turbava la grande luce bianca.
A un tratto il duca vide un gran cavallo nero, montato da un cavaliere vestito di nero, che attraversava al galoppo la corte e senza rallentare s'avventava alle mura e una dopo l'altra le saltava d'un balzo. E nero s'allontanava nella valle bianca col nero mantello svolazzante alle spalle. Un raggio di luna brillò accanto a lui; un cavallo bianco, rivelato solo dall'ombra che proiettava alla luce lunare, si profilò accanto al cavaliere nero e s'allontanò al galoppo con lui.
Il duca fissava attonito la valle. L'ombra nera del cavaliere era ormai lontana e la luna raggiava intorno, immobile. Egli non era più certo se aveva visto, o creduto di vedere, il cavallo bianco e il lucore di luna che lo montava. E chi era il cavaliere nero? Venafro? Mistral? Il trovatore? Dormì assai poco il duca, quella notte. E il suo risveglio fu quello di un uomo turbato e un po' triste. Pochissima luce entrava dalla lunga sottile finestra che si apriva nella parete. Le mura, la valle, gli alberi, tutto era sparito avvolto nella nebbia che a fitte ondate saliva e fluttuava, e un silenzio immenso gravava sulla terra.
Sembrava che la vita fosse fuggita da quei luoghi. Il duca ripensò alla sera precedente, la sala splendente di lumi, il liuto del trovatore, la "branle" che aveva danzato stringendo la mano della marchesa, il suo vestito color luna... il cavaliere nero... quella fuga nella valle... Forse nel salone avrebbe ritrovato qualcuno, forse c'era ancora il giovane suonatore, avrebbe rivisto quello sguardo azzurro, suonato con lui. Forse c'era la marchesa. Certamente ci sarebbe stato il fuoco acceso nel grande camino.
Ma quando si affacciò alla soglia del salone il duca sentì naufragare la sua speranza. Il fuoco, sì, era acceso nel camino, ma alla debole luce della nebbia sedevano dodici figure nere, sul fondo del salone, a consulto. Sedevano gli abati sugli alti lor scanni, accigliati e pensosi, con rade parole. E tutti volsero insieme la testa a guardare il duca con muto sguardo severo.
La marchesa di Challant aveva l'abitudine di uscire a cavallo la sera prima del tramonto, con qualunque tempo, d'estate e d'inverno, col sole, col vento, con la neve e con la pioggia. La marchesa di Challant possedeva lunghi mantelli che coprivano a metà anche il cavallo, di seta d'Arabia per le calde sere d'estate, di velluto e di lana per i primi freddi d'autunno, di folte pellicce per l'inverno.