La marchesa di Challant possedeva due splendidi cavalli, uno bianco e superbo, dal trotto lento e solenne, dal lungo collo robusto e dolcemente flessuoso. Quel cavallo si chiamava Ippomele. Quando cavalcava il suo bianco Ippomele la marchesa di Challant si vestiva tutta di bianco, bianco il mantello, bianco il velo, bianco il grande cappello posato sul velo. L'altro cavallo era nero come la notte, agile nervoso e scattante, col corpo sottile come un puledro, il collo lunghissimo e lunghissima criniera. Amava il galoppo e mal rispondeva alle briglie e al morso. Quel cavallo volava come un angelo della notte, e si chiamava Yvars. Quando cavalcava il suo nerissimo Yvars la marchesa di Challant si vestiva tutta di nero. Nero il mantello, nero il velo, e nero il cappello posato sul velo. La marchesa di Challant era assai bella.
Molti giorni trascorsero sereni quell'anno prima che la neve e il gelo si impadronissero della valle per un tetro interminabile inverno. E ogni sera la marchesa usciva, sola o in compagnia, per la sua cavalcata prima del tramonto. Qualche volta partecipava anche il duca, e allora anche gli abati, tutti o in parte, cavalcavano con lui senza perderlo di vista.
Una sera, mentre triste sedeva alla sua finestra e attendeva di vedere uscire la marchesa a cavallo, il duca fu chiamato dal paggio Irzio nel salone del castello, ché madonna voleva, subito, parlare a tutti.
Quella sera la marchesa di Challant aveva rinunciato alla sua cavalcata. Ippomele e Yvars erano rimasti ad attendere nella stalla, invano. Segno che qualcosa di grave era nell'aria. Ecco infatti che cosa accadde.
Quando gli ospiti scesero nel salone trovarono la marchesa già seduta nel suo grande scanno di quel bellissimo legno di ciliegio che diventa sempre più rosso col passare del tempo. I capelli neri erano raccolti in trecce e ad ogni treccia era avvolto un filo di perle bianche come latte. La marchesa teneva in mano un foglio e si apprestava a leggere: "Si fa obbligo e raccomandazione a tutti i signori dimoranti in questo castello che qualsivoglia pozione, distillato o infuso che essi traggano da erbe, fiori o fronde, sia custodito nelle rispettive stanze di ciascuno, e massime i veleni. In caso di inadempienza si provvederà contro le singole persone secondo che le circostanze, la natura del filtro e le conseguenze potranno suggerire. Si diffida pertanto qualsivoglia persona dal distillare o filtrare succhi sospetti o perniciosi alla vita, e ancor più dal lasciarli incustoditi nelle sale del castello o nelle stanze altrui".
Per capire il senso di queste parole strane bisogna sapere che alcuni giorni prima era accaduto un fatto assai increscioso. Era successo che uno di questi succhi aveva causato, accidentalmente, la morte dell'abate Umidio. Fu un succo di colchici. E fu una sera d'ottobre.
La valle di Challant era ancora fiorita di quei delicatissimi fiori indaco-rosati che traggono vita da un piccolo bulbo biancastro profondamente infisso nel terreno, e da quel medesimo bulbo traggono il rarissimo colore che domina i pascoli in autunno. Non hanno alcun profumo. Si chiamano colchici, forse perché, come dicono alcuni, il loro bulbo fu portato per mare dalla lontana Colchide misteriosa, la magica terra dei veleni. Dai colchici nasce un succo velenoso.
Verso il tramonto di quel giorno sereno d'ottobre, nella luce ancora calda e mirabilmente dorata dell'astro già inclinante sull'orizzonte, la marchesa di Challant era uscita a cavallo, sul bianco Ippomele, per una lenta e quieta cavalcata. Sotto il mantello bianco indossava una tunica indaco-rosata che dal dorso del cavallo scendeva fino a sfiorare la terra. Ma quella volta non fu sola a cavalcare.
Cavalcavano con lei le damigelle di corte, e le era accanto madonna Camilla; cavalcava il duca Franchino, cavalcava l'abate Mistral, e chiudeva il piccolo corteo, sul suo grande cavallo nero, avvolto in un ampio mantello di nero velluto, Venafro.
Venafro sapeva tutte le virtù delle piante e spiegava al duca quanto fosse letale il potere di quei fiori che così delicati sono al tatto e alla vista, ma qual benefico influsso possa avere un mortifero succo, preso in piccolissima dose, per curare certi affanni del respiro, le pericolose accelerazioni del sangue e del cuore, gli acuti dolori delle membra. Non c'è male, egli diceva, che non possa essere anche un bene, non c'è maleficio che non si possa ridurre a beneficio, non c'è cosa negativa al mondo, che non abbia anche un influsso positivo. Il duca l'ascoltava così filosofare, e l'ascoltavano anche le donne mentre scendevano per i poggi che dal castello di Challant digradano giù nella valle, nei pascoli fioriti di colchici. Lì giunti, tutti smontarono e passeggiarono a lungo per i prati fioriti. La marchesa sedette su una roccia e la sua tunica indaco-rosata si sparse sull'erba come un grande fiore d'autunno. Il duca sedette ai suoi piedi nell'erba, e la guardava.
Le damigelle intanto coglievano fiori nei prati ed era un gaio spettacolo vedere le lunghe vesti colorate correre sull'erba, quale azzurra e quale rossa e quale del lieto colore del sole. Fino al tramonto durò quella festa sul prato. Quando la malinconia dell'ombra dilagante nella valle le chiamò al ritorno, vennero tutte con le mani piene di quei fiori per adornarne le stanze in bei vasi di vetro e d'argento.
Sulla via del ritorno, mentre i cavalli salivano lentamente verso il castello, Venafro spiegava alle donne come si estrae il succo dai teneri colchici, facendoli bollire a lungo finché tutta la virtù medicinale sia uscita dalle fibre vegetali, che poi, spremute, si gettano via. Il succo prezioso si passa in un filtro color amaranto e mescolato a miele e zenzero purissimi diviene quel liquore portentoso che può guarire, a gocce, le tristi malattie, e può, in dosi errate, indurre il gelo della morte nelle membra.
Qualcuno forse, nella lunga sera d'autunno, avea per suo sollazzo distillato quel liquido ch'è pernicioso oppur benefico come tutte le cose della vita, che hanno a un tempo un volto gaio e uno triste, e possono donare gioia o dolore, letizia o sofferenza, poiché la provvidenza volle, proprio essa, che in tutto fossero insieme confusi il pianto ed il sorriso.
Così accadde che l'abate Umidio, il pio abate che di molti acciacchi di corpo soffriva, vuoi per l'età, vuoi per le fredde mura del castello e l'umido fiato delle notti d'autunno, l'abate Umidio che sempre mormorando saliva lentissimamente le scale appoggiato al suo bastone di nocciolo e che aveva nella sua piccola stanza gran dovizia di vasi e di fialette, quale piena a metà e quale fino all'orlo, di pozioni e distillati misteriosi che alleviare dovevano i dolori delle vecchie membra, e ai quali attingeva come a provvida speranza ogni sera prima di scordare nel sonno i suoi mali, l'abate Umidio, cui pochi capelli bianchi incorniciavano la testa calva e il volto corruccioso, il mattino dopo, inspiegabilmente, era morto.
Le esequie dell'abate Umidio furono gravi e solenni, come si conveniva al suo stato e al rango dei castellani suoi ospiti. Il duca volle che nella chiesa fossero cantati i salmi di Davide trascritti per più voci dal grande Gregorio, e la marchesa stessa con le sue bianche mani depose sulla pietra tombale, una volta richiusa a livello del pavimento nella chiesa del castello, una ghirlanda di quei fiori che s'usa intrecciare con paglie di grano ed altri erbaggi disseccati quando l'autunno bandisce dalla terra foglie e fiori. Poi gli abati si unirono in capitolo e decisero che uno d'essi scendesse a valle, al convento di Sant'Orso, da cui proveniva l'abate Umidio di buona memoria, a portare la novella della cruda dipartita del fratello Umidio, e a dire che, santamente spirato, ormai si giaceva nella pace dei giusti. A tale incombenza la sorte destinò l'abate Nevoso, ancor giovane d'anni e assai robusto e corpacciuto, ma pigro ed amante dei tepidi ozi più che delle cavalcate nel freddo dell'autunno. Ancor meno egli amava i cavalli, dei quali anzi aveva sommo orrore, sì che per i suoi viaggi soleva servirsi di un mite e piccolo asinello su cui a fatica si reggeva la sua gran mole col peso della carne e del sapere.