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- E non farà dunque più alcuna fatica? - Farà un'identica fatica, ad avvitar bulloni, a battere lamiere e cento altri mestieri.

- Ma allora perché costruire le macchine? Tanto varrebbe continuare a camminare. Questa volta apertamente sorrise messer da Morazzone. - La macchina è come un sortilegio; in fondo se ne potrebbe fare a meno. Eppure si mostra più necessaria del pane, necessaria come l'aria che respiriamo coi polmoni. Ma passerà molto tempo, non preoccupatevi, monsignore.

Così dicendo traeva dal carro una specie di grossa cesta montata su un telaio di ferro.

- È una slitta a molla, monsignore. Molto indicata per chi non ama montare a cavallo quando la neve è alta, e non si può viaggiare a piedi. Si parte in slitta dall'alto di un pendio. Il congegno meccanico è fatto in modo tale che la molla si carica da sé durante la discesa e tanta forza accumula da poter spingere la slitta su in salita. Così con la forza della molla supera le salite e si ricarica nella successiva discesa per poter di nuovo superare altre salite.

Qui tacque l'inventore, mentre Venafro andava considerando quella slitta e pensieri suoi volgeva nella mente.

- Quanto ne volete, messere? - Venti scudi di Francia, - azzardò l'inventore. Ne ebbe dieci e se ne partì contento.

Quella sera Venafro fece dono della slitta all'abate Nevoso, proprio pensando quanto l'abate odiasse andar nella neve e quanto poco amasse montare a cavallo ora che il povero asinello infelice era morto per via. Nevoso volle provarla subito l'indomani, né volle ascoltare i consigli di prudenza che Venafro gli dava, poiché l'inventore era partito e il congegno, diceva, poteva forse non essere perfetto.

Nevoso partì sulla slitta dall'alto del pendio che porta verso il fiume, superò felicemente alcuni dossi, poi, come volle Iddio, precipitò nell'acqua che scorre in fondo alla valle.

Venafro dovette scendere molto lungo il fiume per ritrovare i resti della slitta avvolti nel fango e nelle ramaglie dure. L'abate invece fu ritrovato assai più vicino. Morto, naturalmente.

Le esequie

Le esequie dell'abate Nevoso furono degne del defunto e di coloro che lo compiangevano. Madonna Bianca e le sue dame vestivano tutte in bianco, colore che può significar lutto, quando si voglia, e che ben s'addiceva al silenzioso biancor della valle coperta di neve. Il giorno delle esequie non nevicava, ma il cielo era bianco come la terra innevata: il corteo delle dame si confondeva con la terra tranne che per l'artificiosa eleganza delle vesti. La marchesa, che apriva il corteo sul suo bianco Ippomele, vestiva un mantello di bianchissime volpi, lungo da ricoprire in parte anche il cavallo. In testa portava un largo cappello pure bianco, da cui scendeva un candidissimo velo che le copriva interamente la lunga nerissima capigliatura.

Pastori e contadini stavano a guardare lungo il percorso, felici in cuore dell'occasione che forniva loro quel raro piacere della vista.

Il corteo delle dame era apprezzato sopra ogni cosa; in secondo luogo il corteo dei neri abati, rimasti in dieci di dodici che erano; poi il seguito dei signori, il duca e Venafro, entrambi vestiti di nero, il paggio Irzio, camerieri e scudieri. Tutti rimasero a guardare finché la cavalcata scomparve nel gran portale del castello. E la valle ritornò deserta. Unico segno rimase la neve calpestata e le frequenti tracce, fumanti, dei cavalli.

Quando il ponte si fu rialzato alle spalle del nobile corteo, tornarono a separarsi i due mondi che prima avevano avuto un fuggevole contatto: fuori rimaneva il freddo, la fatica e lo stento, alla muta meraviglia succedeva muto rancore mentre l'ammirazione illusoria si spegneva insieme con il breve giorno d'autunno. E l'autunno cedeva all'inverno.

Dentro il castello furono accesi tutti i lumi e ognuno si ingegnava di scacciare la noia con ogni mezzo: si giocava a dadi e agli scacchi, si suonavano canzoni e si discorreva.

- Ho udito dire, - disse la marchesa, - che un artigiano di Francia scolpisce i più bei pezzi degli scacchi che mai si sian veduti. Li scolpisce in ebano e in legno di rosa, e son sì grandi che quasi uguaglian la persona umana, e per scacchiera si usa il giardino, o la terrazza o il più grande salone del castello.

- Sarebbe assai bello, madonna, se cotali scacchi noi potessimo avere, - disse il duca, - e giuocar con essi come con persone umane. Noi dovremmo, - soggiunse volgendosi a Venafro, - appena le strade si potran percorrere a cavallo, andare a cercar codesti scacchi ove si sia, foss'anche in Francia.

- Ed io ho udito, - intervenne madonna Maravì, - che assai splendidi giuochi di birilli si fanno in una città chiamata Arezzo, che assai lungi si trova, oltre Po e Appennino. Ho udito dire che un artigiano assai famoso scolpisce quei bersagli di fattezze umane, e di aspetto e di misura, sì che dirgli si può a chi il bersaglio deve assomigliare. - E sì dicendo madonna Maravì, che veniva dalla corte angioina di Napoli, scuoteva sorridendo i ricci rossi che, raccolti alla sommità del capo, scendevano a ciocche lungo il collo.

I signori furono tutti d'accordo che non appena fondesse un poco la neve, si manderebbe qualcuno ad Arezzo e in Francia per fornire la corte di quelle meraviglie.

S'avvicinava l'ora del pranzo. Il paggio Irzio venne ad annunciare alla marchesa che, così com'ella aveva ordinato, il bagno era pronto per lei, il bagno con cui voleva della cavalcata, della fatica e delle esequie cancellar dal suo corpo le tracce. Così mentre i servi preparavano le tavole, madonna Bianca se n'andò alle sue stanze accompagnata dal paggio. Per ingannar l'attesa Venafro diede ordine che si preparasse in un gran paiolo vino caldo aromatizzato: egli stesso nel camino della sala si occupò della faccenda, versò nel vino cannella e garofano e miele in abbondanza, mentre il vino rosso e generoso alzava il bollore e un fumo profumato si spargeva dal camino per tutta la sala. Vennero le grandi coppe d'argento e a tutti fu servito vino dolce bollente, che scacciò dalle ossa il freddo e dall'anima la tristezza. Bevuta una prima coppa Venafro ne riempì una seconda e uscì dalla sala. Andò a bussare alla porta della marchesa che doveva a quell'ora essere uscita dal bagno. E la trovò infatti sdraiata su un comodo giaciglio di pelli, vestita d'una bianca camicia, coi lunghi capelli disciolti che il paggio Irzio andava pettinando con un pettine d'avorio. Tutta la stanza era piena d'un profumato vapore, caldo e dolce sì che pareva che l'inverno cessasse fuor della porta. Era profumo d'acqua di rose e la stanza era abbondantemente illuminata da ceri impastati con essenza di rose.

Venafro s'inchinò e porse la coppa alla marchesa, la quale bevve guardandolo e sorridendo. Un lieve rossore le si sparse sul volto mentre il calore del vino le accendeva le membra ristorate dall'acqua.

- Venite, madonna, la cena è pronta, - disse Venafro tendendole la mano.

- Occorre che mi vesta, - rispose lei prendendo tuttavia la mano che l'uomo le porgeva.

- No, venite così. Siete molto bella, madonna.

Lei lo guardò incerta per un attimo; poi rise, si gettò sulle spalle la lunga pelliccia di candide volpi e uscì condotta da Venafro per la mano. Quando entrò nella sala il profumo dell'acqua di rose si mescolò al profumo dolce del vino e un vapore caldo si sparse nella sala. Il duca condusse la marchesa al suo seggio al capo della tavola e avvicinò il suo scanno tanto che ne sfiorava la veste e ne sentiva il calore.

Frattanto gli abati, ammutoliti, si guardavano in viso esterrefatti.

Poi subito dal gruppo si staccò il grosso abate Torchiato, verboso e zoppicante, e con molte parole prese a rimproverare la marchesa per il suo abbigliamento, per i capelli sciolti, per il profumo e infine: Un bagno, - disse, - e a quest'ora! Tutti volsero gli occhi a lui. La marchesa lo lasciò parlare quanto volle. Quando l'abate rosso e ansimante, poi che di eccesso di sangue soffriva, si tacque, la marchesa lo guardò sorridendo, alzò un poco verso di lui la sua coppa e disse: - Non dovreste mai dimenticare, messere, che su di me non avete alcun potere.