Torchiato ammutolì, si guardò intorno cercando lo sguardo dei suoi confratelli; capì il suo errore e si sedette mortificato. Mortificato soprattutto da quel "messere", umiliante, detto a bella posta, in presenza di tutti.
Il duca non sembrò essersi accorto di nulla. Guardava la marchesa con sguardo appannato. Ne aspirava il profumo e rivolgeva nella mente, forse, i versi di un madrigale. Mangiò poco e non parlò per tutto il pranzo. La sua vita era tutta raccolta negli occhi. Anche Venafro era più silenzioso del solito, e guardava la marchesa con occhi pensosi, un po' tristi, com'era sua abitudine. Ogni tanto sembrava che s'accendessero d'un bagliore, ed era quando incontravano quelli della marchesa. Ma se questo accadesse spesso, non lo so.
In quella strana cena silenziosa c'era ancora un uomo che non distoglieva che assai raramente gli occhi dalla marchesa, occhi grigi guizzanti di riso, occhi che sembravano attratti da un punto della veste dove il mantello di pelliccia si stringeva intorno allo scollo della bianca camicia, e il bianco pelo delle volpi giocava sulla bianca pelle della gola; e s'accendevano di bagliori al corso, forse, di pensieri segreti e un impercettibile sorriso rimbalzava da essi alle belle labbra, ai sottili baffi spioventi, sì che tutto il viso sembrava esprimere piacere e malizia. Il giovane abate Mistral bevve molto quella sera, ma non con la passione con cui beveva il duca, né con la pacata mestizia di Venafro. Mistral beveva con aria di interiore baldanza, come beve il guerriero vittorioso alla fortuna d'una battaglia futura, e ad ogni battaglia si accende di maggior desiderio di combattere ed è certo che vincerà, con gioia e senza pena, e anticipa nel pensiero il piacere della vittoria. Allora esulta l'animo del guerriero e gli occhi dicono la tensione dell'amante e la calma certezza, insieme, del vincitore.
La compagnia si sciolse presto quella sera, dopo la strana cena silenziosa; la marchesa si ritirò nelle sue stanze ed anche gli altri si accomiatarono a poco a poco. Rimase solo il duca, seduto nel suo scanno e come trasognato. L'immagine della marchesa lo possedeva ancora, né distoglieva gli occhi dal seggio ov'ella era stata seduta.
Poi si alzò, si accostò a quel seggio e prese a percorrerlo con la mano, come se l'accarezzasse, come volesse coglierne una traccia del calore di lei, del suo profumo. S'inginocchiò a terra di fronte a quel seggio e vi pose sopra il capo, e così rimase a lungo, mentre l'unico lume che era rimasto acceso dava gli ultimi guizzi e lentamente si spegneva, perché nessuno aveva pensato di rifornirlo d'olio.
Molti giorni passarono in questa strana atmosfera di rattenute passioni, di speranze e di sconforti. Furono giorni cupi, di scarso sole velato, di silenziose nevicate, poveri di luce, lunghe le notti e insonni per molti ospiti del castello. Furono tristi aurore tarde, giorni pallidi e stanchi, crepuscoli precoci e sere interminabili di noia. Quasi nessuno usciva dal castello, né signori né servi. Pareva che il mondo si fosse ristretto a quelle mura merlate, richiuso su desideri e passioni che in esso covavano sepolte.
Il duca Franchino aveva cura che tutte le finestre venissero chiuse prima che egli entrasse in una stanza. E a tale scopo si faceva precedere dal paggio Irzio che aveva il compito di controllare che ogni apertura sull'esterno fosse accuratamente chiusa con il suo chiavistello. Il duca se ne stava interi giorni rannicchiato nel suo scanno, avvolto in pellicce, a mormorare contro la sua sorte che l'aveva sbattuto in quel mostruoso angolo della terra, dove arrivava la primavera quando altrove è l'estate, e giunge l'autunno prima che l'estate sia cominciata. E a tutti raccontava della fertile pianura ov'era nato e dei frutti meravigliosi che si producevano in quelle terre, ove la vigna maturava insieme ai fichi dolcissimi e grossi, ove l'estate lunga e ardente riempie le vene di calore per tutto l'anno e il breve, pur rigido, inverno è rallegrato da infinite piacevoli opere. Si ammazzano i grassi maiali e se ne cuoce il sangue fumante, e molte altre saporitissime parti, e si salano le carni migliori in molte gustosissime guise; si staccano dai tralicci i grappoli d'uva leggermente appassiti che ancor più dolci sono che non freschi; si tagliano le grandissime zucche dalla polpa gialla e dolce e se ne fanno mille pietanze e dolci a non finire.
- Sapete, madonna, - disse rivolgendosi alla marchesa che aveva proprio allora aperto una finestra per offrire il roseo volto al freddo vento invernale; e in quella il duca richiuse la finestra, sapete che dalle zucche gialle i cuochi di corte han tratto la più buona minestra e raffinata che mai per palato umano si sia gustata? Tanto era preziosa quella vivanda che per uso le si accostava una poverissima pietanza dei contadini mantovani che si fa con gli scarti del porco quando si uccide. Allor che tutta la carne del porco è cotta oppur salata, rimangono i visceri caldi e sanguinanti, avvolti in una membrana grassa e ricca: è da questa membrana che i nostri contadini estraggono la loro umile ghiottoneria. La mettono a fuoco e ne struggono il grasso, che poi s'adopera per tutto l'anno; ciò che rimane vien gettato in una gran padella ardente e ne escono brevi pezzetti di carne, che rosolati e caldi si cospargono di molto sale e si mangiano subito. E allora si accorgono le genti che, accompagnati nello stomaco da quel vinello brusco, che appunto chiamasi lambrusco, son cosa sì buona da soddisfare il palato dei signori e dispongono lo stomaco alle preziose vivande che seguono e seguiranno. Si mangiano, appunto questi ciccioli caldi, nei giorni più freddi per riscaldar lo stomaco all'inizio del pranzo. Poi si fan seguire da quei guancialotti di zucca, che son la più raffinata vivanda che si faccia con la zucca.
Qui il duca tacque, rapito nei suoi ricordi. Si riscosse soltanto quando la marchesa gli pose una mano sulla spalla e disse amichevolmente: - Anche noi abbiamo porci, e zucche, e si potrebbe fare questa cena alla moda della vostra terra, monsignore, e pure bere quel vino brusco che voi dite, che farem venire dalle pianure del Po, e vi consoleremo d'esser qui, in questo paese freddo e inospitale...
Il duca guardò a lungo la marchesa, poi le prese la mano e ancor più a lungo la baciò.
- Certamente, - intervenne Venafro, - noi dobbiamo fare questa cena e riscaldarci il cuore col cibo e col vino per scacciare l'inverno e dimenticare le pene che ci opprimono la mente.
Alle parole di Venafro tutti sembrarono destarsi e il duca, Venafro stesso e il paggio Irzio si posero subito in faccende per procurare l'occorrente. Di porci erano ricche le stalle del castello; grandissime zucche furono fatte venire dalla pianura, verdi e bitorzolute di fuori, gialle e tenere di dentro. La cosa più difficile fu avere il lambrusco, poiché tutta la terra che si stende ai piedi di quei monti produce vini prelibati assai più del lambrusco, ma non produce lambrusco. E quello voleva il duca. Intervenne in questa faccenda il vecchio abate Torchiato che assai grande intenditore era di vini, ma il lambrusco ancor non conosceva, come colui che mai non era uscito della valle. E subito si fece carico di procurare una gran botte di quel vino perché voleva, così disse, colmare quell'imperdonabile lacuna nella sua scienza e assaggiar di quel vino, così disse, prima che la morte spegnesse in lui i sensi del piacere. E poiché gli abati hanno gran poteri nel mondo che son negati a principi e signori, mandò servi e messaggeri sulle strade coperte di neve, mobilitò conversi e confratelli che di convento in convento si passaron la notizia, finché, alla fine di sì gran ricerca si scoprì, nella cantina di un oscuro prete di San Vincente una gran botte intatta di lambrusco. Quella fu tolta, pagata, trasportata, e giunse infine al castello di Challant su un solido carro tirato da due lenti giudiziosissimi cavalli, che senza scosse, senza turbare il fondo denso della botte, salirono su per l'erta che mena al castello, sì che altrettanto dolcemente dodici servi levarono la botte e la portarono nella sala del castello, su una gran tavola ove dimorò, senza che alcun la toccasse, una settimana intera, sì che lentamente il vino, se un poco nel viaggio s'era turbato, nella quiete si decantasse per ritornare all'antica limpidezza. Con occhi d'amore il buon Torchiato lo vegliò per lunghi giorni d'attesa, mentre intanto l'altre opere fervevano. Le grandi zucche furono arrostite intere nel focolare della cucina e il duca stesso ne fece cavare con un lungo cucchiaio di legno la polpa tenera e dolce. Poi fece pestare nel mortaio mandorle dolci e mandorle amare, che andarono aggiunte alla polpa delle zucche pur essa pestata nel mortaio. Indi pesò con le sue stesse mani le preziosissime spezie, noce moscatella, pepe e polvere di cannella, e il profumato impasto diviso in tante masserelle fu avvolto in una pasta di puro uovo sale e farina sì da formare tanti uguali guancialotti, gonfi e profumati, gialli e tenerelli. Intanto i servi fondevano il grasso dal sacco che involge gli intestini del porco: fu un lavoro lungo, a basso calore perché nulla bruciasse nel paiolo. Poi quanto rimaneva, masserelle di carne, filamenti ed altre cose, fu gettato in una padella di rame arroventata sui carboni; qui sfrigolarono, fumarono, scoppiettarono, mentre l'ultimo grasso si scioglieva; saltarono nella padella dal lunghissimo manico abilmente agitata da robuste villosissime braccia, e si ridussero a bruscoli croccanti che, bollenti, furono cosparsi di abbondante sale e pepe pestati insieme nel mortaio. Questi bruscoli ardenti furono versati in un grande vassoio di rame e subito portati in tavola dove i signori già attendevano e dove Venafro già aveva spillato dalla botte molte coppe di vino che aveva distribuito in giro a tutti i commensali. Quando vennero i ciccioli ardenti e fumanti nel vassoio di rame, tutti allungarono ad essi mani vogliose e i ciccioli salati e pepati andarono a spegnere il sapore aspro del vino, e a destare nuova sete di vino. E furono nuove coppe, e nuovi vassoi di ciccioli ardenti che andarono a placare la prima fame destata dal vino nello stomaco.