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Rand si voltò. Le Fanciulle lo seguirono, in ordine sparso e circospette come se si aspettassero un attacco proprio in quel momento. Asmodean ancora suonava il lamento.

Mat Cauthon camminava lungo il bordo della fontana asciutta con le braccia spalancate cantando rivolto agli uomini che lo osservavano nella luce morente.

Berremo il vino fino a quando avremo prosciugato i calici, e baceremo le ragazze così non piangeranno, lanceremo i dadi fino a quando voleremo per danzare con Jak delle Ombre

L’aria era fresca dopo la calura del giorno e per un momento pensò di abbottonarsi la giubba di fine seta verde ricamata in oro, ma la bevanda che gli Aiel chiamavano oosquai gli faceva ronzare le orecchie con il rumore di un’ape gigante e il pensiero volò via. Le figure di pietra bianca che rappresentavano le tre donne erano in piedi su una piattaforma nella vasca polverosa, alte sei metri e nude. Ognuna aveva una mano alzata e l’altra che impugnava una grande brocca di pietra capovolta sulle spalle per far scendere l’acqua, ma a una mancava la testa e la mano alzata, in un’altra il vaso era distrutto.

Danzeremo tutta la notte mentre la luna corre libera, e faremo saltare le ragazze sulle ginocchia, allora cavalcherai con me, per danzare con Jak delle Ombre.

«Una bella canzone che parla della morte» gridò uno dei conducenti dei carri con un forte accento del Lugard. Gli uomini di Kadere si mantenevano ben lontani dagli Aiel attorno alla fontana. Erano tutti individui rozzi dai visi duri, ma convinti che un Aiel avrebbe aperto loro la gola per un’occhiata sbagliata. Non erano molto lontani dalla verità. «Ho sentito mia nonna parlare di Jak delle Ombre» proseguì l’uomo del Lugard con le orecchie grosse. «Non va bene cantare della morte a quel modo.»

Mat considerò intontito la canzone e fece una smorfia. Nessuno aveva ascoltato Danza con Jak delle Ombre da quando era caduta Aldeshar. Nella sua testa poteva ancora sentire la canzone provocatoria che aleggiava mentre i Leoni d’Oro si lanciavano nel loro ultimo, futile attacco contro l’esercito di Artur Hawkwing che li circondava. Almeno non aveva farfugliato nella lingua antica. Non era ubriaco come sembrava, ma aveva bevuto troppo oosquai. La bevanda aveva l’aspetto e il sapore di acqua sporca, ma prendeva alla testa come il calcio di un mulo. Moiraine potrebbe impacchettarmi e spedirmi alla Torre se non faccio attenzione. Almeno mi porterebbe fuori dal deserto e lontano da Rand, pensò. Forse era più ubriaco di quanto credesse, se lo considerava uno scambio conveniente. Cambiò motivo e si mise a cantare Il Calderaio in cucina.

«Il Calderaio è in cucina con un monte di lavoro da fare, la signora è di sopra, mentre si infila un abito blu. Scende le scale piena di fantasie, gridando, Calderaio, oh, caro Calderaio, non ripareresti una pentola per me?»

Alcuni degli uomini di Kadere si unirono alla canzone mentre Mat danzando ritornò nel punto da dove era partito. Gli Aiel non lo fecero. Fra loro gli uomini non cantavano a meno che non fossero inni di battaglia o lamenti funebri, e nemmeno lo facevano le Fanciulle, tranne fra di loro.

Due Aiel erano accovacciati sul bordo della fontana senza mostrare alcun effetto dell’oosquai che avevano bevuto, a parte gli occhi leggermente velati. Mat sarebbe stato contento di fare ritorno in un luogo dove gli occhi chiari erano una rarità. In vita sua aveva visto solo occhi marroni o neri, tranne quelli di Rand.

Alcuni pezzi di legna — gambe e braccioli di sedie rovinate — giacevano sul lastricato nell’area dove gli osservatori avevano lasciato un varco. Di fianco al bordo c’era un vaso di terracotta vuoto e ce ne era un altro con dell’oosquai e una tazza d’argento. Il gioco era di bere un sorso, poi cercare di colpire con un coltello un bersaglio lanciato in aria. Nessuno degli uomini di Kadere e pochi Aiel volevano cimentarsi ai dadi con lui, che vinceva spesso, e non giocavano a carte. Il lancio dei pugnali in teoria avrebbe dovuto essere differente, soprattutto se era incluso bere oosquai. Non aveva vinto spesso come con i dadi, ma una mezza dozzina di tazze d’oro e due brocche erano adagiate nella vasca vicino a lui, insieme a braccialetti, collane incastonate di rubini, pietre di luna o zaffiri, più alcune monete. Il cappello a falde larghe era appoggiato vicino a una strana lancia con il manico nero. Alcuni oggetti erano di fattura aiel. Era più facile che pagassero con questi che con delle monete.

Corman, uno degli Aiel sul bordo, lo guardò quando smise di cantare. Aveva una cicatrice bianca che gli passava sul naso. «Sei quasi bravo con i pugnali quanto con i dadi, Matrim Cauthon. Vogliamo finire? La luce sta svanendo.»

«C’è abbastanza luce.» Mat guardò in alto. Delle ombre chiare coprivano l’intera valle del Rhuidean, ma il cielo era ancora abbastanza chiaro. «Anche mia nonna riuscirebbe a scagliare un pugnale con questa luce. Io potrei farlo bendato.»

Jenric, l’altro Aiel, guardò gli osservatori. «Ci sono delle donne qui?» Grosso come un orso, si considerava spiritoso. «Gli uomini parlano così solo quando vogliono fare colpo su una donna.» Le Fanciulle sparse fra la folla risero come gli altri, forse anche di più.

«Pensi che non sia capace?» mormorò Mat, sciogliendo la sciarpa nera che portava attorno al collo per nascondere la cicatrice di quando era stato impiccato. «Grida solo ‘ora’ quando lanci il bersaglio, Corman.» Si legò velocemente la sciarpa sugli occhi ed estrasse uno dei pugnali da una manica. Il suono più alto era il respiro degli spettatori. Non sono ubriaco? Sono più sbronzo del figlio di un violinista, pensò. Eppure all’improvviso percepì la fortuna, quell’ondata di emozione che provava quando sapeva quale punteggio avrebbe fatto prima che i dadi si fermassero. Sembrò rischiarargli leggermente la testa. «Lancialo» lo invitò con calma.

«Adesso!» gridò Corman e il braccio di Mat si protese indietro, quindi in avanti.

Nel silenzio il rumore dell’acciaio che colpiva il legno fu forte come il tonfo dell’oggetto sul lastricato. Nessuno disse una parola mentre Mat si toglieva la sciarpa dagli occhi. Un pezzo del bracciolo di una sedia, non più grande della sua mano, era per terra con la lama fermamente conficcata nel mezzo. Corman aveva cercato di diminuire le opportunità. Be’, Mat non aveva mai specificato il tipo di bersaglio. Si rese conto d’un tratto che non aveva nemmeno scommesso.

Alla fine uno degli uomini di Kadere disse: «Questa è la fortuna del Tenebroso!»

«La fortuna è un cavallo da cavalcare come qualsiasi altro» si disse Mat. Non importa da dove provenga. Non che conoscesse l’origine della propria. Cercava solo di cavalcarla al meglio.

Con la stessa calma con cui aveva parlato, Jenric lo guardò cupo. «Cos’è che hai detto, Matrim Cauthon?»

Mat aprì la bocca per ripetere la frase, quindi la chiuse di nuovo mentre le parole gli tornavano alla mente. Sene sovya caba’donde ain dovirnya. La lingua antica. «Nulla» mormorò. «Parlavo da solo.» Gli spettatori cominciavano ad andare via. «Immagino che ormai la luce sia poca per poter continuare.»

Corman appoggiò un piede sul pezzo di legno per liberare il pugnale e riportarglielo. «Prima o poi, Matrim Cauthon, un giorno.» Era la maniera aiel per dire ‘mai’ quando non volevano dirlo apertamente.